lunedì 17 febbraio 2014

Stefano Rolando, Comunicazione, poteri e cittadini – Tra propaganda e partecipazione ,
EGEA, gennaio 2014
Dieci domande all’autore
 a cura di Maurizio Trezzi



Tre parole in questo titolo: comunicazione, poteri, cittadini. Quale è il nesso fra di loro?
Qualcuno ha fatto notare che l’illustrazione in copertina sarebbe frustrante: peserebbe di più un solo uomo di potere rispetto a (simbolicamente) tutti i cittadini. Ma l’editor del libro ha detto: no, volevamo dare la tendenzialità opposta, dovrebbe pesare più un solo cittadino che (simbolicamente) tutti le persone di potere. Detta così ammetto però che il rischio del luogo comune o della soavità teorica si affacci. Ma il tema, riferito alla comunicazione,  è questo. In un campo cruciale e delicato la sovranità è davvero del popolo?  E’ stato quindi necessario fare un po’ di storia e recuperare almeno la controversa lezione del ’900, che – tra istituzioni e cittadini -  ha prodotto lezioni pesantissime di propaganda ma anche esperienze di liberazione, di affrancamento e di partecipazione.


Il  sottotitolo invece sembra sintetizzare un percorso storico: tra propaganda e partecipazione. E’ così?
Non nel senso che molti credono, cioè che la prima metà del secolo scorso abbia fatto un monumento alla propaganda (fascismo, nazismo, comunismo) e la seconda metà del secolo abbia visto la riscossa dei cittadini. Il senso della lezione storica oggi mi appare quello di un complesso e quindi anche ambiguo intreccio di due approcci che convivono anche dentro i regimi democratici. Obbligando la teoria a definire meglio e gli utenti a farsi più critici. Certo la cultura della propaganda contiene anche un approccio seduttivo che deve mantenere un pizzico di ruolo per mantenere la rotta del dialogo, dell’attenzione, del passaggio nella giungla mediatica. Ma al centro della nuova comunicazione pubblica c’è non solo “il servizio” – come è scontato – ma anche l’orientamento a riequilibrare il modello di “dibattito pubblico” favorendo la pubblica utilità come tema spesso negletto.

L’intero testo è pervaso dall’idea di adeguare, aggiornare, europeizzare la comunicazione pubblica italiana. Dunque siamo in ritardo, in particolare nelle norme o nelle applicazioni?
Gli sviluppi europei della materia sono attenti alla questione del dibattito pubblico che non può essere sequestrato dai due finora maggiori contraenti: i media e la politica. Istituzioni che in Europa hanno un loro punto di identità più distinto rispetto alla politica (in Italia occupante vera e propria); imprese, che non devono raccontarsi solo commercialmente ma anche rispetto al loro environnement sociale e territoriale; la società fatta di  molte complessità organizzate (non ghettizzabili nei vari specifici, ma capaci di un “racconto pubblico” più generale), grazie alla percezione di ruolo nel processo di agenda building possono contribuire alla qualità e al pluralismo del dibattito. Ne va di una dimensione partecipativa della nostra democrazia che è il dato più chiacchierato e meno regolamentato dell’Italia contemporanea. In più si tratta di stare oggi nella “rete” in una condizione in cui la religione della persona (quella che Castells rende protagonista dell’autoproduzione di massa)faccia in conti con bisogni sociali che attendono con impazienza la trasformazione in diritti e quindi in nuove forme di rapporto con il potere. Noi siamo sfrenati nel diritto di raccontare ai nostri amici come facciamo la torta di mele  e siamo troppo indulgenti con un sistema pubblico in cui torna spesso a prevalere la cultura del segreto e del silenzio.

Ritardi, forzature, uso improprio, omissioni. Ma è tutta colpa della politica?
La politica – o per meglio dire la mala politica – ha le sue colpe. Ma in questo libro ricordo che il varo della mia esperienza avvenne in un quadro in cui la pubblica amministrazione era governata dalla filosofia del potere burocratico in cui, appunto, segreto e silenzio erano la regola aurea. In un certo senso la mia prima mission – da direttore generale 37 enne – era di andare a testa bassa contro questo immenso muro di convincimenti. Cosa che feci, sempre meno da solo e sempre più con risultati. Ma scrivendone oggi dico anche chiaramente che le amministrazioni pubbliche sono tre e ben distinte. Le prime due - quella del controllo, che padroneggia solo cultura giuridico-amministrativa, restata la più autoreferenziale; quella della gestione, che le si è opposta, con una cultura più economica, ancora in una estenuante e non risolta lotta di potere – il cittadino lo vedono assai poco. Ne parlano – come di utente o come di contribuente – ma c’è ancora poca relazione reale. Per questo che vi è una terza amministrazione, quella relazionale, costruita su una cultura delle scienze sociali (sociologi, psicologici, comunicatori, che io chiamo in generale “architetti sociali”) che rappresenta una condizione ancora di paria ma che se imparassero a fare alleanza tra loro sposterebbero – per il know how che potrebbero mettere a disposizione del sistema decisionale – un pezzo di arrugginito sistema che oggi governa molta normativa e tutta la procedura in una condizione largamente precedente quella che chiamiamo “cultura della rete”.

Cos’è che rende la comunicazione pubblica una materia “malintesa”?
Il fatto che quel potere burocratico insieme a una cultura propagandistica della classe politica (anche qui non tutta ma però ancora diffusa)ne limitano la portata, ne dimensionano in senso unilaterale e verticale le prestazioni e poi ci ricamano su facendo pure la spendig review a quelle funzioni che pur insufficienti sono in alcuni contesti anche l‘unico spazio di accesso per i cittadini vessati per cercare istruzioni per l’uso in un contesto in cui la semplificazione è stata un capitolo di molti annunci e pochisssima valutazione di rendimento. Così non è cresciuta neppure la responsabilità decisionale dei comunicatori (sette su dieci da noi fuori da ogni rapporto con l’area decisionale di amministrazioni e enti, come dire con funzioni puramente confezionatorie).


Come si prevede che incida l’evoluzione della materia in Europa, rispetto ad una maggiore armonizzazione tra i paesi membri?
L’Europa è bicefala, si sa. Quella intergovernativa sta prevalendo su quella “comunitaria” perché le gelosie nazionali restano con una domanda interna alimentata dalla demagogia, dalla crisi irrisolta e dal declino anche della qualità recente del ceto politico messo nelle rappresentanze europee. La comunicazione è largamente dentro queste gelosie. E tuttavia l’innovazione tecnologica accelera i processi. La domanda sociale – più o meno della stessa natura dappertutto – si fa sentire. Certi processi di integrazione (i giovani, i media, la conoscenza, i linguaggi, eccetera) costruiscono un nuovo fattore di spinta. Ho dedicato a questo tema il capitolo centrale del libro perché se c’è cambiamento esso passa prima di qua.

Tra Stato, Regioni ed enti locali si registrano dinamiche diverse?


Tra lo Stato che doveva fare le norme e  i Comuni che dovevano fare i servizi, le Regioni erano nate per fare la cosa più difficile: l’integratore. Il fallimento di questa funzione, trasformandone alcune in piccoli Stati e altre in grandi Comuni, ha modificato il senso della sinergia istituzionale su cui la difettosa riforma del titolo V della Costituzione ha finito per costruire più conflitti. Da dove ricominciare? Necessariamente da una riforma istituzionale su scala almeno europea. Ma ora, già da subito, con tre stimoli che possono funzionare a condizione di viaggiare su una moderna comunicazione pubblica saldata con gli interessi sociali: uno Stato votato alla “spiegazione”, un sistema regionale votato allo “sviluppo”, un quadro delle autonomie a presidio dell’ascolto del cittadino e delle imprese.

Che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione siano determinanti è ormai un dato acquisito. Il che vuol dire che la comunicazione pubblica diventa un anello della Agenda digitale?
Oppure che l’Agenda digitale è messa al servizio della causa sociale della “spiegabilità” dell’accesso, che sono le due partite essenziali della comunicazione pubblica. Quando si coglie che il nodo che lega le cose – lo sviluppo dell’Open Data (si legga nel mio libro il botta e risposta con Luca Attias, una forte intelligenza tecnologica che opera all’interno delle istituzioni) – è all’1% delle potenzialità, si capisce che l’allarme dovrebbe essere in bocca al Presidente della Repubblica e al Capo del Governo (come succederebbe negli USA) dalla mattina alla sera.


La serrata narrazione del testo produce una snella conclusione. Cinque proposte. Con quale logica comune?
La logica è quella della sinergia istituzionale che accennavo prima. E la speranza è che il semestre di presidenza italiana dalla UE accenda la luce tra i cinque segmenti a cui quelle proposte fanno riferimento. Mi dicono che il ritardo è rilevante per la messa a punto nello specifico. Ma mantengo alcune speranze


In sostanza un libro scritto per gli studenti, per i funzionari, per la politica o per i cittadini?
E’ scritto per un’Italia smarcata dalla ventata populista e demagogica, per un’Italia smarcata dal malaffare, per un’Italia reattiva socialmente, per un’Italia che non regala il potere della comunicazione solo agli interessi di parte. Dentro ci stanno studenti, funzionari, politici, imprenditori e tantissime signore Maria. Non è un manuale e ho chiesto ai miei studenti di misurarsi su un testo di proposta. Aspetto a breve le loro recensioni. Capirò se si è riusciti a tener il contatto con gli addetti ai lavori aprendo anche il dialogo con chi accetta solo il valore aggiunto di una conoscenza spendibile nella realtà.


Maurizio Trezzi

Nessun commento:

Posta un commento