Stefano
Rolando, Comunicazione, poteri e
cittadini – Tra propaganda e partecipazione ,
EGEA,
gennaio 2014
Dieci domande all’autore
a cura di Maurizio Trezzi
Tre parole in questo
titolo: comunicazione, poteri, cittadini.
Quale è il nesso fra di loro?
Qualcuno ha fatto notare che l’illustrazione
in copertina sarebbe frustrante: peserebbe di più un solo uomo di potere
rispetto a (simbolicamente) tutti i cittadini. Ma l’editor del libro ha detto:
no, volevamo dare la tendenzialità opposta, dovrebbe pesare più un solo
cittadino che (simbolicamente) tutti le persone di potere. Detta così ammetto
però che il rischio del luogo comune o della soavità teorica si affacci. Ma il
tema, riferito alla comunicazione, è
questo. In un campo cruciale e delicato la sovranità è davvero del popolo? E’ stato quindi necessario fare un po’ di
storia e recuperare almeno la controversa lezione del ’900, che – tra
istituzioni e cittadini - ha prodotto
lezioni pesantissime di propaganda ma anche esperienze di liberazione, di
affrancamento e di partecipazione.
Il sottotitolo invece sembra sintetizzare un
percorso storico: tra propaganda e
partecipazione. E’ così?
Non nel senso che molti credono, cioè che la
prima metà del secolo scorso abbia fatto un monumento alla propaganda
(fascismo, nazismo, comunismo) e la seconda metà del secolo abbia visto la
riscossa dei cittadini. Il senso della lezione storica oggi mi appare quello di
un complesso e quindi anche ambiguo intreccio di due approcci che convivono
anche dentro i regimi democratici. Obbligando la teoria a definire meglio e gli
utenti a farsi più critici. Certo la cultura della propaganda contiene anche un
approccio seduttivo che deve mantenere un pizzico di ruolo per mantenere la
rotta del dialogo, dell’attenzione, del passaggio nella giungla mediatica. Ma
al centro della nuova comunicazione pubblica c’è non solo “il servizio” – come
è scontato – ma anche l’orientamento a riequilibrare il modello di “dibattito
pubblico” favorendo la pubblica utilità come tema spesso negletto.
L’intero testo è
pervaso dall’idea di adeguare, aggiornare, europeizzare la comunicazione
pubblica italiana. Dunque siamo in ritardo, in particolare nelle norme o nelle
applicazioni?
Gli sviluppi europei della materia sono
attenti alla questione del dibattito pubblico che non può essere sequestrato dai
due finora maggiori contraenti: i media e la politica. Istituzioni che in
Europa hanno un loro punto di identità più distinto rispetto alla politica (in Italia
occupante vera e propria); imprese, che non devono raccontarsi solo
commercialmente ma anche rispetto al loro environnement sociale e territoriale;
la società fatta di molte complessità
organizzate (non ghettizzabili nei vari specifici, ma capaci di un “racconto
pubblico” più generale), grazie alla percezione di ruolo nel processo di agenda
building possono contribuire alla qualità e al pluralismo del dibattito. Ne va
di una dimensione partecipativa della nostra democrazia che è il dato più
chiacchierato e meno regolamentato dell’Italia contemporanea. In più si tratta
di stare oggi nella “rete” in una condizione in cui la religione della persona
(quella che Castells rende protagonista dell’autoproduzione di massa)faccia in
conti con bisogni sociali che attendono con impazienza la trasformazione in
diritti e quindi in nuove forme di rapporto con il potere. Noi siamo sfrenati
nel diritto di raccontare ai nostri amici come facciamo la torta di mele e siamo troppo indulgenti con un sistema
pubblico in cui torna spesso a prevalere la cultura del segreto e del silenzio.
Ritardi, forzature, uso
improprio, omissioni. Ma è tutta colpa della politica?
La politica – o per meglio dire la mala
politica – ha le sue colpe. Ma in questo libro ricordo che il varo della mia
esperienza avvenne in un quadro in cui la pubblica amministrazione era
governata dalla filosofia del potere burocratico in cui, appunto, segreto e
silenzio erano la regola aurea. In un certo senso la mia prima mission – da
direttore generale 37 enne – era di andare a testa bassa contro questo immenso
muro di convincimenti. Cosa che feci, sempre meno da solo e sempre più con
risultati. Ma scrivendone oggi dico anche chiaramente che le amministrazioni
pubbliche sono tre e ben distinte. Le prime due - quella del controllo, che
padroneggia solo cultura giuridico-amministrativa, restata la più
autoreferenziale; quella della gestione, che le si è opposta, con una cultura
più economica, ancora in una estenuante e non risolta lotta di potere – il
cittadino lo vedono assai poco. Ne parlano – come di utente o come di
contribuente – ma c’è ancora poca relazione reale. Per questo che vi è una terza
amministrazione, quella relazionale, costruita su una cultura delle scienze
sociali (sociologi, psicologici, comunicatori, che io chiamo in generale
“architetti sociali”) che rappresenta una condizione ancora di paria ma che se
imparassero a fare alleanza tra loro sposterebbero – per il know how che
potrebbero mettere a disposizione del sistema decisionale – un pezzo di arrugginito
sistema che oggi governa molta normativa e tutta la procedura in una condizione
largamente precedente quella che chiamiamo “cultura della rete”.
Cos’è che rende la
comunicazione pubblica una materia “malintesa”?
Il fatto che quel potere burocratico insieme
a una cultura propagandistica della classe politica (anche qui non tutta ma
però ancora diffusa)ne limitano la portata, ne dimensionano in senso
unilaterale e verticale le prestazioni e poi ci ricamano su facendo pure la spendig
review a quelle funzioni che pur insufficienti sono in alcuni contesti anche
l‘unico spazio di accesso per i cittadini vessati per cercare istruzioni per
l’uso in un contesto in cui la semplificazione è stata un capitolo di molti
annunci e pochisssima valutazione di rendimento. Così non è cresciuta neppure
la responsabilità decisionale dei comunicatori (sette su dieci da noi fuori da
ogni rapporto con l’area decisionale di amministrazioni e enti, come dire con
funzioni puramente confezionatorie).
Come si prevede che
incida l’evoluzione della materia in Europa, rispetto ad una maggiore
armonizzazione tra i paesi membri?
L’Europa è bicefala, si sa. Quella
intergovernativa sta prevalendo su quella “comunitaria” perché le gelosie
nazionali restano con una domanda interna alimentata dalla demagogia, dalla
crisi irrisolta e dal declino anche della qualità recente del ceto politico
messo nelle rappresentanze europee. La comunicazione è largamente dentro queste
gelosie. E tuttavia l’innovazione tecnologica accelera i processi. La domanda
sociale – più o meno della stessa natura dappertutto – si fa sentire. Certi
processi di integrazione (i giovani, i media, la conoscenza, i linguaggi,
eccetera) costruiscono un nuovo fattore di spinta. Ho dedicato a questo tema il
capitolo centrale del libro perché se c’è cambiamento esso passa prima di qua.
Tra Stato, Regioni ed
enti locali si registrano dinamiche diverse?
Tra lo Stato che doveva fare le norme e i Comuni che dovevano fare i servizi, le
Regioni erano nate per fare la cosa più difficile: l’integratore. Il fallimento
di questa funzione, trasformandone alcune in piccoli Stati e altre in grandi
Comuni, ha modificato il senso della sinergia istituzionale su cui la difettosa
riforma del titolo V della Costituzione ha finito per costruire più conflitti. Da
dove ricominciare? Necessariamente da una riforma istituzionale su scala almeno
europea. Ma ora, già da subito, con tre stimoli che possono funzionare a
condizione di viaggiare su una moderna comunicazione pubblica saldata con gli
interessi sociali: uno Stato votato alla “spiegazione”, un sistema regionale
votato allo “sviluppo”, un quadro delle autonomie a presidio dell’ascolto del
cittadino e delle imprese.
Che le tecnologie
dell’informazione e della comunicazione siano determinanti è ormai un dato
acquisito. Il che vuol dire che la comunicazione pubblica diventa un anello
della Agenda digitale?
Oppure che l’Agenda digitale è messa al
servizio della causa sociale della “spiegabilità” dell’accesso, che sono le due
partite essenziali della comunicazione pubblica. Quando si coglie che il nodo
che lega le cose – lo sviluppo dell’Open Data (si legga nel mio libro il botta
e risposta con Luca Attias, una forte intelligenza tecnologica che opera
all’interno delle istituzioni) – è all’1% delle potenzialità, si capisce che
l’allarme dovrebbe essere in bocca al Presidente della Repubblica e al Capo del
Governo (come succederebbe negli USA) dalla mattina alla sera.
La serrata narrazione
del testo produce una snella conclusione. Cinque proposte. Con quale logica
comune?
La logica è quella della sinergia
istituzionale che accennavo prima. E la speranza è che il semestre di presidenza
italiana dalla UE accenda la luce tra i cinque segmenti a cui quelle proposte
fanno riferimento. Mi dicono che il ritardo è rilevante per la messa a punto
nello specifico. Ma mantengo alcune speranze
In sostanza un libro
scritto per gli studenti, per i funzionari, per la politica o per i cittadini?
E’ scritto per un’Italia smarcata dalla
ventata populista e demagogica, per un’Italia smarcata dal malaffare, per
un’Italia reattiva socialmente, per un’Italia che non regala il potere della
comunicazione solo agli interessi di parte. Dentro ci stanno studenti,
funzionari, politici, imprenditori e tantissime signore Maria. Non è un manuale
e ho chiesto ai miei studenti di misurarsi su un testo di proposta. Aspetto a
breve le loro recensioni. Capirò se si è riusciti a tener il contatto con gli
addetti ai lavori aprendo anche il dialogo con chi accetta solo il valore
aggiunto di una conoscenza spendibile nella realtà.
Maurizio
Trezzi
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