di
Maurizio Trezzi
Girando per Assessorati, Regioni,
Comuni, più o meno in ogni parte di Italia, si ascoltano di sovente frasi del
tipo: “Non ci sono più soldi”, “Non possiamo fare investimenti”, “Dobbiamo
tagliare”. Riduzione dei trasferimenti e diminuzioni di spesa riguardano molti
comparti della Pubblica Amministrazione ma in maniera spietata e implacabile i capitoli di bilancio della comunicazione.
Certo, si tratta di una tendenza comune anche alle imprese private. Li i budget
per la pubblicità, ridotti drasticamente in ottica di spending review, producono,
come effetto diretto, la messa in ginocchio dei gruppi editoriali (stampa e tv)
e di riflesso una diminuzione del pluralismo e del diritto di informazione.
Il Pubblico però fa storia a sé. Nella
PA ciò che sta venendo meno è il diritto
dei cittadini ad essere informati, le occasioni di partecipare attivamente alle
decisioni comuni, la possibilità di comunicare, quindi ad essere ascoltati,
da chi pianifica, sceglie, governa. Il tutto inserito in un quadro di
deprimente mediocrità, nel quale la qualità della comunicazione pubblica, tolti
pochissimi esempi virtuosi, resta al di sotto dell’accettabile. Questo per la cronica mancanza di cultura della PA,
e in particolare dei suoi dirigenti apicali che considerano la comunicazione un
obbligo e non una necessità, una scocciatura e non un diritto da far acquisire
ai cittadini.
Lo scenario dipinto – con la fiducia
verso i partiti ai minimi storici (7%) e la partecipazione al recente voto
regionale in Basilicata al 47% - prefigurerebbe, rispetto alla comunicazione pubblica, decisioni diametralmente opposte. E’
nei momenti più difficili, quando scarseggiano le risorse per grandi
investimenti, opere pubbliche e interventi sociali che si dovrebbe aumentare la
spesa per comunicare efficacemente con i cittadini.
E invece la spesa per la comunicazione viene tagliata, ridotta a zero in
molte situazioni. Gli informatori municipali (tre/quattro numeri l’anno) non
escono più, gli aggiornamenti dei siti web e la produzione di materiale
informativo sui servizi essenziali viene meno, le iniziative di partecipazione
spariscono dalle agende.
Di questo processo si rende complice
la classe politica, troppo spesso incline a confondere la comunicazione
pubblica con la propaganda elettorale e quindi ad attivare risorse solo quando, ogni cinque anni in
media, i cittadini si trasformano magicamente
in elettori. Salvo poi accorgersi che senza continuità e abitudine al
confronto il disastro elettorale è praticamente certo. Quanti politici indicano
nell’incapacità di comunicare efficacemente quanto è stato fatto nel proprio
mandato il motivo delle proprie sconfitte elettorali? Praticamente tutti.
Ma questa marcia indietro, la mancanza
di interlocuzione con i cittadini, sono soprattutto un assist perfetto alla
demagogia, al populismo, alla perdita di fiducia verso le Istituzioni
democratiche. In un’epoca fatta di informazioni alla “quattro salti in padella”,
dove il percepito si crea scaldando al microonde slogan e proclami per una
veloce fruizione da fast food, la mancanza di un’efficace dialogo con i
cittadini - da mettere in pratica soprattutto nei Comuni, vero avamposto
dell’Amministrazione civile - continua a
offrire il fianco alla definizione di opinioni pubbliche basate sul nulla,
sull’ignoranza (intesa come non conoscenza) e sul qualunquismo.
L’allontanamento dalla politica, la
sfiducia, il dire: “sono tutti uguali” è certamente il prodotto di catastrofi
legislative e dell’arrogante incapacità dimostrata da molti uomini di governo
(di ogni ordine e grado). Ma è soprattutto l’incapacità di utilizzare la
comunicazione pubblica come leva del civismo, come elemento pedagogico per la
diffusione di un bene comune, come strumento in grado di avvicinare i cittadini
e non di allontanarli dalle Istituzioni.
E poi, facendo davvero i conti della
serva, la comunicazione costa poco e, se fatta bene, è molto, molto efficace. Secondo
gli ultimi dati ufficiali disponibili[1] l’86%
dei Comuni italiani spende meno di 100.000 euro l’anno in comunicazione e nel
60% dei casi rappresenta meno dello 0.5% della dotazione finanziaria dell’Ente.
Sono cifre riferite al 2004, quindi certamente oggi da approssimare per difetto.
Per un Sindaco qualunque però è oggi difficile trovare 5 milioni di euro per
costruire una piscina comunale o 500.000 per sistemare parchi e verde pubblico.
Ma non può essere impossibile destinare 50-100.000 euro l’anno per comunicare
con i suoi cittadini, per rendicontare con un bilancio sociale come e perché
sono state spese le poche risorse presenti, per attivare campagne di
partecipazione sulle progettualità future. Se questo non accade, non è per
carenza di risorse. Quello è un alibi.
Ciò che manca, davvero. è la cultura
della comunicazione e della democrazia che, grazie a questo prezioso strumento,
potrebbe finalmente tornare ad essere un bene percepito come essenziale, da
tutti i cittadini.
[1]
Situazione e tendenze della Comunicazione Istituzionale in Italia (2000-2004),
commissionato dal Ministero della Funzione Pubblica. 2005.
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