Spengo la tv per non sentire i
soliti commenti. E’ appena finita la partita Italia-Uruguay. Sul calcio
italiano si è abbattuta l’amara sentenza: eliminati al primo turno del mondiale
brasiliano. Qualche ora dopo un sonno profondo (nessun incubo ci mancherebbe),
accendo la radio e mi collego al web. Ed
eccomi sommerso dai commenti e dalle morali sulla disfatta, sui responsabili,
sulle dimissioni del ct e del presidente federale, sul fallimento del calcio come
specchio del Paese che non riparte. Fiumi di parole, spesso inutili e sempre
poco obiettive.
Vedo partite di calcio da quando
avevo tre mesi. Negli ultimi anni sempre meno, causa pochezza del valore
tecnico e morale di questo sport capace, indirettamente, di far morire un ragazzo
napoletano, Ciro Esposito, che stava andando in uno stadio. Le sconfitte
dell’Italia contro Costarica e Uruguay sono la prova del fallimento del calcio
italiano e dei suoi allenatori, sotto il profilo tecnico. Quattro anni non sono
bastati, dopo la figuraccia - peggiore rispetto a quella di ieri – di Sud
Africa 2010 con Lippi in panchina, per far cambiare registro agli allenatori e
ai geni del pallone. Quelli che commentano partite letargiche, soloni del calcio
che vivono di esso e quindi non possono, e non vogliono, ammettere l’incapacità
di questo sport (????) di rinnovarsi, cambiare registro, innovarsi.
Tecnicamente il calcio è un gioco
molto semplice. Questo perché l’alto numero di giocatori si distribuisce su una
superficie molto grande e quindi, come nel caso del rugby, le dinamiche i
movimenti e gli schemi hanno spazio a sufficienza per essere messi in pratica.
L’avvento della difesa a zona, mutuata dalla pallacanestro, impone, come sul
parquet, un gioco che preveda veloci ribaltamenti del fronte offensivo e quindi
penetrazioni dalla fasce laterali per superare il muro difensivo. Non è cosi
complicato, in giro per il mondo lo fanno tutti. E invece in Italia il modo di
giocare a calcio, imposto da allenatori insufficienti - dalla serie A ai settori
giovanili - prevede 99 volte su 100 il passaggio orizzontale, il possesso palla
(peggio di quello che faceva Liedholm al Milan) e soprattutto il passaggio
arretrato ogni volta che l’esterno arriva sulla tre quarti, senza che vi sia il
taglio sulla fascia della seconda punta a dettare il triangolo, quello che nel
basket si chiama “dai e vai”. Detto così sembra complesso ma basta riguardare
la partita di ieri per vedere come l’Uruguay nelle, poche, volte in cui ha avuto
il possesso palla lo abbia fatto. Basta vedere come ha giocato quest’anno l’Atletico
Madrid o come si muovono, senza palla, i giocatori della Colombia e delle altre
nazioni sudamericane. Ma l’Italia no. Passaggi arretrati, tocchi ravvicinati e
cross inutili dalla tre quarti. E in quattro anni non è cambiato niente. Al Mondiale
Prandelli, ct dimissionario, è arrivato dopo aver provato all’Europeo, a
modificare questo obsoleto e stantio modo di giocare. Purtroppo non aiutato
dagli altri allenatori italiani che in campionato hanno continuato a far
giocare le squadre nello stesso modo e alla stessa velocità: soporifera. E
infatti in Champions League non si fa risultato da anni. Altri ritmi, altre
prestazioni, altre tattiche. E nessuno, compresi i commentatori delle tv a
pagamento, ha mai avuto il coraggio di affermare, se non a giochi fatti dopo la
disfatta di ieri, il fallimento di questo calcio. Sport noioso e permeato da
entourage di faccendieri e furbetti del quartierino che vivono alle spalle di
milionari alla ricerca del loro posto sotto i riflettori. Mi è capitato anni fa
di partecipare a una riunione a porte chiuse della Lega Calcio, allora
presieduta da Franco Carraro. Il livello medio degli interventi non era diverso
da quello del bar di via Pola a pochi metri dalla sede della Lega al Milano.
Congiuntivi sbagliati, consecutio dimenticate, atmosfera da riunione
condominiale. E questo è il calcio business italiano? E nessuno vuole cambiare.
Quando si guarda al calcio sembra di sentire parlare dell’Italia, della
politica, del sistema paese e non di quello che succede su un prato verde in
nome della dea Eupalla. E allora, forse, il calcio italiano è lo specchio della
scarsa propensione al cambiamento di questa Italia? Certamente si. Vince sempre
il Gattopoardo. Siamo un Paese vecchio, poco incline alle modifiche. Per
cambiare occorre rischiare, perdere le posizioni di privilegio iniziali per
arrivare ad avere benessere per tutti, guardando alla collettività e non solo
al personale. Cambiare significa scontentare qualcuno per il bene comune, un
concetto molto poco “democristiano” e del “volemose bene”, uno dei fondamenti
dell’etica italiana. Cambiare vuol dire anche andare sulla fascia e crossare,
rischiando il dribbling per cercare il gol. Ma questa Italia, oggi, tutto
questo non lo sa fare.
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