sabato 17 gennaio 2015

Dal 19 gennaio nelle librerie “Citytelling” di Stefano Rolando.

di Maurizio Trezzi

A partire dal 19 gennaio, è in distribuzione nel circuito delle librerie italiane il nuovo libro di Stefano Rolando (professore di Teoria e tecniche della comunicazione all’Università Iulm e presidente del Comitato Brand Milano) Citytelling – Raccontare le identità urbane. Il caso Milano, edito da EGEA con la prefazione di Gianluca Vago, rettore dell’Università degli Studi di Milano e coordinatore dei rettori della rete universitaria milanese e lombarda. Libro che ha avuto il 17 dicembre una presentazione in anteprima alla Triennale di Milano e che sarà oggetto di presentazioni e dibattiti in varie città italiane nei prossimi mesi. Il Brand pubblico è una delle nuove frontiere della comunicazione pubblica che ripone, in maniera sostanziale il tema della strategia nell'identificazione dei progetti di comunicazione per i territori. 




Quale è il radicamento disciplinare della materia proposto in questo nuovo testo?
In verità è un percorso in terra di frontiera. Senza la storia, l’economia, le scienze sociali (antropologia in testa), le scienze urbane, le scienze politiche insieme ad un approccio integrato all’interpretazione dell’evoluzione culturale, non si afferra la complessità identitaria di un territorio. Che è la materia in cui si colloca l’approccio qui esposto. Ma lo specifico è poi contenuto in un ambito che va sotto il nome di comunicazione narrativa. Che nelle strategie comunicative pubbliche è fortemente connesso ad una merce rara ma indispensabile, che potremmo chiamare la governance della visione. Da qui le correlate della materia, tra cui il marketing territoriale che erroneamente viene considerato una premessa, mentre secondo me è parte di rilevanti conseguenze.

Quindi, per riassumere, l’approccio al branding pubblico può essere considerato una parte evolutiva della comunicazione pubblica?
Per riassumere, direi certamente di sì.

Cosa implica tutto questo, nel percorso di formazione dei comunicatori pubblici?
Direi che non lo modifica ma: “riconduce”. Riconduce, cioè, alle componenti strategiche della disciplina. Sottraendo la materia al tran-tran in cui molta esperienza pratica l’ha ridotta. Se si limita la materia a dare visibilità (che poi finisce con il promuovere più le persone che i problemi) è chiaro che tutta questa strumentazione serve a poco. Ma se – per gestire la condivisione collettiva dei cambiamenti – ci si preoccupa di verificare anche l’evoluzione dei processi identitari, di cogliere il senso del patrimonio simbolico collettivo connesso (in parte caduco, in parte vitale, in parte trasformato), di trovare i modi di incentivare il dibattito pubblico al riguardo e infine di dar forma ai tanti modi di narrare quel patrimonio, ecco che si coglie la novità. Potremmo dire che la maggiore novità è riportare la comunicazione pubblica a occuparsi di processi (storia e cambiamento) e non solo di prodotti (norme e regole).

Ma la parola brand ha un suo invalso: cioè stringere la questione ad un segno rappresentativo. In questo libro non si dà grande peso a questo aspetto?
Innanzi tutto non è vero che non si dà peso a questo aspetto. Anzi – sia nel testo che nella documentazione che il lettore troverà gratuitamente in rete utilizzando il codice di accesso stampato in fondo al libro – si vedrà che il patrimonio iconico che sintetizza la “rappresentazione simbolica” ha il suo peso e il suo ruolo. Dico solo che – come per le aziende anche per i territori – la materia richiede importanti correlati.

Puoi fare degli esempi, trattati nel libro?
Dedico la prima metà del libro alle questioni generali del branding pubblico. E la seconda metà a raccontare il caso Milano, che è un cantiere aperto a fronte di tante cose che a partire da questo 2015 segnalano forti cambiamenti.  Proprio pensando a Milano e alle trasformazioni della narrazione della città dal precedente Expo (1906) a quello che si apre nel maggio del 2015 si può vedere che i segni del brand design sono solo la risultante di un conflitto, spesso molto duro, tra le determinazioni di classi dirigenti e dello stesso popolo rispetto al disegno meno razionale della storia che si abbatte, nel bene e nel male, su una città cambiando molto spesso la direzione di marcia (nel caso di Milano almeno dieci volte nel secolo preso in considerazione).

La prefazione del prof. Vago segnala la forte implicazione dell’internazionalizzazione rispetto al tema.
Certamente, nel caso Milano è evidente che il carattere finora un po’ separato dei due processi identitari che hanno caratterizzato l’evoluzione del ‘900 – quello localistico e quello globalizzato – sono destinati a una fusione, in senso appunto glocale, con mutue conseguenze. E questo è il prodotto di quella visione competitiva che anche l’avvio del cantiere di costruzione della città metropolitana segnala. Il biglietto da visita della città che passa da borgo di poco più di un milione di abitanti al carattere (già assunto da molte città nel mondo) di metropoli (per Milano sfiorando i 5 milioni di abitanti).

Cosa significa un brand glocale?
Nel caso della prefazione del prof. Vago (che guarda alla complessità delle competenze della rete universitaria milanese) vorrei aggiungere il senso del significato multidisciplinare dell’approccio, che è quello adottato da tutte le grandi (e non solo grandi, ma anche innovative) città che hanno messo mano alla rigenerazione della loro narrativa. E poi vorrei fare riferimento al colloquio – che separa le due parti del libro – con Piero Bassetti, nel corso del quale le riflessioni hanno i piedi ben piantati nella tradizione, ma lo sguardo è verso il modo di stare allineati (anche interpretando correttamente il grande messaggio di contenuto di Expo) alle sfide planetarie.


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