mercoledì 25 giugno 2014

Eupalla e il Gattopardo

Spengo la tv per non sentire i soliti commenti. E’ appena finita la partita Italia-Uruguay. Sul calcio italiano si è abbattuta l’amara sentenza: eliminati al primo turno del mondiale brasiliano. Qualche ora dopo un sonno profondo (nessun incubo ci mancherebbe), accendo la radio e  mi collego al web. Ed eccomi sommerso dai commenti e dalle morali sulla disfatta, sui responsabili, sulle dimissioni del ct e del presidente federale, sul fallimento del calcio come specchio del Paese che non riparte. Fiumi di parole, spesso inutili e sempre poco obiettive.
Vedo partite di calcio da quando avevo tre mesi. Negli ultimi anni sempre meno, causa pochezza del valore tecnico e morale di questo sport capace, indirettamente, di far morire un ragazzo napoletano, Ciro Esposito, che stava andando in uno stadio. Le sconfitte dell’Italia contro Costarica e Uruguay sono la prova del fallimento del calcio italiano e dei suoi allenatori, sotto il profilo tecnico. Quattro anni non sono bastati, dopo la figuraccia - peggiore rispetto a quella di ieri – di Sud Africa 2010 con Lippi in panchina, per far cambiare registro agli allenatori e ai geni del pallone. Quelli che commentano partite letargiche, soloni del calcio che vivono di esso e quindi non possono, e non vogliono, ammettere l’incapacità di questo sport (????) di rinnovarsi, cambiare registro, innovarsi.

Tecnicamente il calcio è un gioco molto semplice. Questo perché l’alto numero di giocatori si distribuisce su una superficie molto grande e quindi, come nel caso del rugby, le dinamiche i movimenti e gli schemi hanno spazio a sufficienza per essere messi in pratica. L’avvento della difesa a zona, mutuata dalla pallacanestro, impone, come sul parquet, un gioco che preveda veloci ribaltamenti del fronte offensivo e quindi penetrazioni dalla fasce laterali per superare il muro difensivo. Non è cosi complicato, in giro per il mondo lo fanno tutti. E invece in Italia il modo di giocare a calcio, imposto da allenatori insufficienti - dalla serie A ai settori giovanili - prevede 99 volte su 100 il passaggio orizzontale, il possesso palla (peggio di quello che faceva Liedholm al Milan) e soprattutto il passaggio arretrato ogni volta che l’esterno arriva sulla tre quarti, senza che vi sia il taglio sulla fascia della seconda punta a dettare il triangolo, quello che nel basket si chiama “dai e vai”. Detto così sembra complesso ma basta riguardare la partita di ieri per vedere come l’Uruguay nelle, poche, volte in cui ha avuto il possesso palla lo abbia fatto. Basta vedere come ha giocato quest’anno l’Atletico Madrid o come si muovono, senza palla, i giocatori della Colombia e delle altre nazioni sudamericane. Ma l’Italia no. Passaggi arretrati, tocchi ravvicinati e cross inutili dalla tre quarti. E in quattro anni non è cambiato niente. Al Mondiale Prandelli, ct dimissionario, è arrivato dopo aver provato all’Europeo, a modificare questo obsoleto e stantio modo di giocare. Purtroppo non aiutato dagli altri allenatori italiani che in campionato hanno continuato a far giocare le squadre nello stesso modo e alla stessa velocità: soporifera. E infatti in Champions League non si fa risultato da anni. Altri ritmi, altre prestazioni, altre tattiche. E nessuno, compresi i commentatori delle tv a pagamento, ha mai avuto il coraggio di affermare, se non a giochi fatti dopo la disfatta di ieri, il fallimento di questo calcio. Sport noioso e permeato da entourage di faccendieri e furbetti del quartierino che vivono alle spalle di milionari alla ricerca del loro posto sotto i riflettori. Mi è capitato anni fa di partecipare a una riunione a porte chiuse della Lega Calcio, allora presieduta da Franco Carraro. Il livello medio degli interventi non era diverso da quello del bar di via Pola a pochi metri dalla sede della Lega al Milano. Congiuntivi sbagliati, consecutio dimenticate, atmosfera da riunione condominiale. E questo è il calcio business italiano? E nessuno vuole cambiare. Quando si guarda al calcio sembra di sentire parlare dell’Italia, della politica, del sistema paese e non di quello che succede su un prato verde in nome della dea Eupalla. E allora, forse, il calcio italiano è lo specchio della scarsa propensione al cambiamento di questa Italia? Certamente si. Vince sempre il Gattopoardo. Siamo un Paese vecchio, poco incline alle modifiche. Per cambiare occorre rischiare, perdere le posizioni di privilegio iniziali per arrivare ad avere benessere per tutti, guardando alla collettività e non solo al personale. Cambiare significa scontentare qualcuno per il bene comune, un concetto molto poco “democristiano” e del “volemose bene”, uno dei fondamenti dell’etica italiana. Cambiare vuol dire anche andare sulla fascia e crossare, rischiando il dribbling per cercare il gol. Ma questa Italia, oggi, tutto questo non lo sa fare.