martedì 21 dicembre 2010

La nuova frontiera della pubbliche relazioni

Nei prossimi anni sarà necessario che le Relazioni Pubbliche giochino un ruolo strategico di guida nella costruzione dei brand per imprese, istituzioni, territori. Questo significa saper costruire “relazioni con i consumatori e i cittadini”  e non più solo soffocarli di spot e messaggi promozionali. Per questo le relazioni pubbliche dovranno trasformarsi in una disciplina guida basata su scambio di conversazioni e non solo su messaggi. Più che comprare tempo e attenzione bisognerà quindi guadagnare fiducia e fare reputazione.

Man mano che le barriere di accesso alle tecnologie si abbasseranno, ci sarà sempre meno bisogno di tecnologia e sempre più di comunicatori evoluti. La vera sfida è quindi governare piattaforme, non relegare la comunicazione a un ruolo di sudditanza rispetto ad esse. Servono quindi campagne di comunicazione multicanale che possono essere attivate molto più da soggetti che già oggi si trovano in molte agenzie di PR e che conoscono e utilizzano modelli più facilmente applicabili alla strumentazione digitale. Viceversa è più difficile il “salto di qualità”  di professionisti oggi impegnati nelle web agecies che devono adattarsi a logiche di brand e di identità e ad altre piattaforme che non gli sono proprie.

Pur crescendo di importanza, la Corporate Communication non potrà più assolvere in via esclusiva al compito di costruire relazioni tra brand e stakeholders. Non sarà più il management a decidere cosa è rilevante comunicare, ma saranno i clienti, gli utenti, gli stakeholder e il territorio a chiedere quello che serve loro di sapere. Ascoltare quindi servirà più che parlare. Definire le policy relazionali dell’azienda e dell’Ente e la loro applicazione, sarà molto più importante che la semplice comunicazione.

Via via che la reputazione (e le relazioni sulle quali si basa) diventerà asset strategico per la crescita, le grandi società di consulenza saranno sempre più interessate a offrire servizi collegati alla gestione di questo bene primario. Sarà quindi una battaglia dura, perché queste società sono già posizionate molto in alto e frequentano le stanze dei bottoni e sono in grado di dare valore alla vendita della pura consulenza, affare molto più redditizio della mera esecuzione troppo spesso “svenduta” dalle piccole società di comunicazione.

Dunque l’unico parametro per valutare l’efficacia della consulenza sarà la forza delle relazioni create con chi ascolta. Con un semplice ma efficace gioco di parole: avrà più successo chi creerà relazioni di successo. E il valore di queste relazioni potrà essere misurato, per la prima volta, con strumenti in grado di contare realmente in maniera oggettiva gli accessi e i tassi di conversione dalla pura curiosità all’acquisto, alla partecipazione, alla condivisione di intenti e alla appartenenza a sistemi di identità competitiva.

martedì 14 dicembre 2010

Allo Iulm la presentazione di "La Comunicazione pubblica per una grande società"

Davanti a studenti, cultori della materia e docenti è stato presentato, lunedì 13 dicembre, il nuovo libro di Stefano Rolando La comunicazione pubblica per una grande società, edito da Etas e in libreria dai primi di dicembre. Ne hanno parlato Piero Bassetti (presidente dell’Associazione Globus&Locus), don Davide Milani (portavoce del Cardinale Dionigi Tettamanzi), Valeria Peverelli (professionista RP e laureata IULM), con la moderazione di Maurizio Trezzi. 
Un libro interessantissimo – ha detto Piero Bassettiche esprime il coraggio dell’autore di uscire, nella materia, dall’ambito della statualità e di ridefinire la stessa parola ‘pubblico’, ragionando sui nuovi nessi comunicativi – cioè di racconto, ovvero di public discourse – tra sapere, potere e libertà”.
 “Si apre una battaglia di fondo – ha detto don Davide Milani su un’idea di comunicazione pubblica che offre nuova dignità alla materia perché in questo approccio non solo l’apparato istituzionale ma in un certo senso tutti hanno diritti e compiti nella comunicazione”.
Un testo stimolante – ha detto Valeria Peverelli che riconduce ad un serrato confronto tra ciò che si deve intendere per interesse generale e ciò che oggi rappresenta un nuovo e diverso profilo della responsabilità professionale”.
Maurizio Trezzi ha sottolineato la complessità del termine ‘grande società’ “in cui va letto più lo sforzo di allargare il perimetro etico e disciplinare di una materia che rischiava il perimetro stretto del portato della legge 150 che il termine invalso oggi nella politica anglosassone di Big Society, pur essendo ben coinvolte in questo testo le conseguenze complesse della sussidiarietà ormai costituzionalizzata”.
Stefano Rolando ha sottolineato l’urgenza di impegnare la ridefinizione disciplinare in questo campo sul terreno della democrazia partecipativa e sulle ragioni del dibattito pubblico “a cui insieme ai soggetti privati e associativi può portare un contributo civile anche quella parte di funzione pubblica che vive con profonda cultura sociale e di servizio la propria relazione con l’utenza”.

venerdì 10 dicembre 2010

Maurizio Trezzi intervista Stefano Rolando

Perché un nuovo testo sulla comunicazione, dedicato a un settore assolutamente centrale e non marginale come quello della sfera pubblica, ambito dai confini ormai molto allargati e non facilmente definiti?
Ho scritto molto sulla comunicazione pubblica. E – come dico nell’introduzione – quando ho cominciato era chiaro che a questo settore disciplinare e professionale, alla cui nascita in Italia credo di avere dato un contribuito concreto, si associava un’idea prevalente, quella di poter essere una leva nuova e potente per la modernizzazione dello Stato. Anzi, diciamolo chiaramente, per la riforma dello Stato. Il laboratorio principale fu a metà degli anni ’80 non a caso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Gli anni ’90, con molte turbolenze, hanno portato a metà decennio internet; e alla fine la legge 150, che fissa obblighi, responsabilità e legittimazioni alla comunicazione delle pubbliche amministrazioni. La legge ha però anche circoscritto il perimetro della materia. Mentre – grazie a internet ma anche  alla trasformazione sociale del paese e alla trasformazione della politica e della stessa democrazia – i nostri anni ci hanno mostrato che della riforma dello Stato non si interessa praticamente più nessuno sul serio, mentre il bisogno di una comunicazione pubblica veritiera, non propagandistica, di accompagnamento a profili importanti di competitività e di solidarietà, è cresciuto nel paese. Fatto di società e di mercati, cioè di cittadini e di imprese.

Ma qualcosa di simile era già stato accennato in un libro del ‘98, dopo l’esperienza alla Presidenza del Consiglio e la, breve ma significativa, attività di management in Olivetti. Il libro si chiamava Un paese spiegabile. Cosa c’è di nuovo?
Vedevo lì il ruolo del territorio (ero stato chiamato da poco a fare il direttore generale del Consiglio Regionale della Lombardia) e vedevo la potenzialità rivoluzionaria dell’innovazione tecnologica. Temevo anche che il lungo iter parlamentare di una legge importante e molto invocata come la 150 avrebbe chiuso la partita al ruolo di “sportello” della PA, oltre a quello, funzionale fino a un certo punto alla materia, degli uffici stampa. Misi nel titolo la parola “paese” e non più la parola “Stato”. Pensando che accompagnare davvero i cittadini a capire le normative e a utilizzare servizi e strutture in modo funzionale alla crescita (anche europea) dei diritti, fosse un compito fondamentale. Con alcuni settori chiave, di cui in quegli anni mi occupai a fondo: quello della scuola, quello della salute, quello della sicurezza e quello della sostenibilità. Da quel tempo parlo delle “quattro S” , in cui la comunicazione pubblica era come è affidata all’intera filiera degli operatori che fronteggiano gli utenti, non a ufficetti relegati – pur assai utilmente – a ricevere reclami o richieste di informazioni. Dunque una cultura generale del settore pubblico e del suo modo di interagire con la società.

E 12 anni dopo come si è evoluto quel percorso, quali sono gli approdi della materia?
Ad inizio di questo decennio vi è stata una, pur discussa, revisione costituzionale. L’art. 118, ultimo comma, ha visto l’inserimento – e quindi la costituzionalizzazione – del principio della sussidiarietà. Dibattiti, attese, delusioni hanno caratterizzato questi anni. Ma soprattutto si sono formate varie scuole di pensiero riguardo al principio innovativo diventato legge primaria. Da un lato il sistema dei soggetti più operanti nell’impresa sociale hanno spinto verso una interpretazione funzionale allo snellimento del settore pubblico e al rafforzamento di soggetti privati, associativi, consortili, cooperativi capaci di svolgere meglio e più efficacemente compiti di pubblica utilità. Dietro a questo fronte ci sono varie realtà in Italia, tra cui il sistema cooperativo e una realtà forte al nord come la Compagnia delle Opere nel cui ambito vi sono state anche caratterizzazioni teorico-culturali di cui è un’espressione il prof. Giorgio Vittadini. Dall’altro lato vi sono movimenti e associazioni che hanno lavorato per rendere lo stesso cittadino protagonista del processo di sussidiarietà, elevando il punto di consapevolezza/responsabilità del tema dei diritti costituzionali e di cittadinanza (questione nazionale ed europea) a nuova condizione del farsi attivo della società civile in processi di responsabilità. Qui contributi teorici sono stati dati da altri validi colleghi come il prof. Gregorio Arena e, con riferimenti soprattutto europei, il prof. Giovanni Moro. Un terzo lato, connesso alle dinamiche del fare e ad una idea dell’economia sostenibile e della qualità della vita, come fattori fondanti una diversa rappresentazione dell’interesse pubblico, è venuta da movimenti dinamici come Legambiente e al trascinamento di personalità di proposta e di azione, come l’on. Ermete Realacci (a cui collego anche studiosi come Aldo Bonomi o Nadio Delai) che fa individuare un terzo lato del perimetro in costruzione della cultura sussidiaria: dopo imprese e cittadini, il territorio. Un quarto lato, ancora sul fronte delle imprese, viene dagli studi specifici sul non profit che si connettono a tutti i riferimenti sin qui fatti e penso ai contributi di molti tra cui quelli del  prof. Stefano Zamagni e del prof. Giorgio Fiorentini.

E in tutto ciò quale è il nuovo contributo che deve fornire la comunicazione?
Avevo bisogno di questa premessa per dare spazio al profilo che tratto in questo libro. E’ quello di pensare come generabile un altro lato di un vasto e dinamico spazio – che ha nel momento di annuncio, di rappresentazione, di racconto, un fattore fondante essenziale – che cresca piuttosto dentro le culture civili degli operatori pubblici. Penso da un lato alla componente dei funzionari che si sono formati in questi anni su concetti larghi di comunicazione pubblica anche se poi costretti a fare “mestieri” ridotti (ridotti dalla politica che preferisce la propria visibilità, ridotti dalla legge che fatica a costruire percorsi dirigenziali tanto è vero che su tre strutture di comunicazione due – risultati di ricerca – sono estranee all’area delle decisioni, ridotti da una crescita della “giornalistizzazione” del materia rispetto all’enorme incidenza potenziale dei caratteri partecipativi e relazionali.
Dunque un invito – argomentato – a chi opera nel campo a guardare con curiosità e ricerca (marketing sociale) il bisogno e le attese di utenze specifiche per “allungare” la propria cultura, i propri spazi, i propri strumenti verso forme di sussidiarietà comunicativa. Rendere partecipi soggetti e spazi che nella società civile contribuiscono a spiegare e attuare leggi (dentro una cultura della legalità che non può essere solo di polizia e magistratura ma anche di cittadini e aziende) e soprattutto che diano corpo – in tanti settori in modo essenziale – alla rappresentazione di bisogni e attese che spesso la PA, quando la politica è miope o semplicemente demagogica, non vuole intercettare. Una politica paga del patto che riesce a fare con i media per rendere visibile se stessa. Qui si tratta di rendere “visibile” ben altro. E i siti anche pubblici, gli ambiti di eventi anche pubblici, le manifestazioni culturali anche pubbliche, l’editoria sociale anche pubblica, eccetera, sono un sistema di superfici che possono allargare la capacità di intercettazione e d rappresentazione trasformando a lungo la stessa qualità della comunicazione pubblica. Non più solo imbuto per i messaggi del potere, ma spazio pubblico per la democrazia partecipativa e la crescita del dibattito pubblico.

L’espressione “Grande Società” vuole tradurre esattamente quello che in alcune democrazie anglosassoni è oggi programma di governo sotto il nome di “Big Society”?
Si e no. Riprende l’idea del principio sussidiario e punta al rafforzamento di alleanze tra soggetti pubblici e privati, tra operatori professionali pubblici e privati. Ma non ricalca strettamente i provvedimenti che poi attorno a quell’espressione si vanno attuando. Ovvero non entra nel merito. Segnala che attorno a questo tema molti “burocrati” possono rivelare il loro vero volto civile, la loro cultura sociale, la loro capacità professionale di ampliare a poco a poco ciò che gli strumenti già a disposizione mettono in mano loro (anzi quasi totalmente in mano loro). Penso per esempio all’estensione recente dei social networks e delle forme partecipative in rete che contengono più potenzialità di ciò che le leggi prefigurano e che la maggior parte dei “capi” prevede. Ma soprattutto ricapitola l’inventario teorico e metodologico di una disciplina per allungare il passo in un periodo in cui invece tutti si lamentano e piangono miseria e stagnazione.

Con un altro, più ponderoso e forse anche più “pesante” libro – S.Rolando: Economia e gestione della comunicazione delle organizzazioni complesse, CEDAM – si è tentata una parte di questa “estensione”, quella legata al rapporto tra comunicazione pubblica e comunicazione di impresa. Come si mettono in relazione queste due entità, apparentemente lontane?
In realtà si tratta di mondi molto più vicini di quanto possa apparire, come evidenziato in quel testo, forse meno divulgativo perché scritto all’interno di logiche proprie dell’analisi che appartiene al mio raggruppamento disciplinare, quello di Economia e della gestione delle imprese, di cui gli studi di marketing sono una componente e in cui vi è un posto recente per la comunicazione – con carattere di “leva organizzativa” – sia nel settore privato che pubblico. Se si vuole argomentare che la comunicazione pubblica (o meglio di pubblica utilità) parte oggi da un’idea della parola “pubblico” come non appartenente solo allo Stato, è evidente che bisogna guardare a contaminazioni, estensioni, integrazioni, dialogo. Quello tra istituzioni e imprese è il più invocato. Da quando è scoppiata la crisi economica mondiale non si parla d’altro (da Obama a Draghi, dalla Merkel a Tremonti). Occorre disegnare ambiti di sinergia evidenti, almeno negli apparati comunicativi. Qui piuttosto si tenta di andare oltre. Di pensare alla “potenzialità pubblica” (da leggersi come responsabilità) che sta nella società civile e di richiamare l’attenzione degli operatori pubblici verso questa sinergia.

In “La comunicazione pubblica per un grande società” sono commentate le opinioni di alcuni analisti - per esempio di Piero Ostellino, sul Corriere della Sera – che obiettano sul tema della Big Society come irrealizzabile a causa della mancanza, in Italia, di una società civile. E proprio così?
Insomma, se si arriva a dire questo (capisco ogni tanto la delusione per un paese che ama troppo essere comandato e per una società spesso poco reattiva verso soprusi e illegalità, anzi non poche volta collusa) veramente ci arrendiamo di fronte ad un unico soggetto sociale che si organizza indipendentemente dalle istituzioni: la malavita. Allora non parliamo più di grandiosità del volontariato, non parliamo più di formazione di una cultura critica come dovere di scuola e università, non parliamo più tout court di libertà, perché resterebbe solo la libertà di consumare e di fare vacanze. No, penso che lo “spazio” esista. Ma in modo non uniforme. Che è visibile in una Italia – anzi in una Europa – a tratti ineguali. Che è capito da alcuni spezzoni di politica (a destra, al  centro e a sinistra), ma non dalla prevalenza. Che è sostenuto da alcuni spazi mediatici, ma non quelli centrali nell’agenda setting.

Il nuovo libro ha una costruzione scientifica e giornalistica. Cioè l’architettura corrisponde allo sviluppo argomentativo di una teoria. Poi dentro c’è un’analisi e, tema per tema, una sorta di partecipazione corale di studiosi. Sia con citazioni, sia con opinioni espresse direttamente da nomi importanti: Alberto Abruzzese, Giuliano Amato, Simon Anholt, Gregorio Arena, Fabrizio Barca, Piero Bassetti, Gianni Canova, Antonio Catricalà, Marino Cavallo,  Enzo Cheli, Alberto Contri, Fiorella Di Cindio, Giuseppe De Rita, Nadio Delai, Enrico Giovannini, Carlo Jean, Roberto Louvin, Guido Martinotti,  Franco Pizzetti, Stefano Rodotà, Stefano Sepe, Claudio Strinati, Marco Vitale, Pierre Zèmor. Che significato ha questa coralità?
Significa che mi inserisco, con una proposta specifica e se vogliamo segmentale, dentro una dibattito largamente solcato e molto importante come alternativa alla qualità di una condizione politico-civile che sembra prevalere di questi tempi. Come se la rappresentazione dei media fosse oggi più che mai diversa da quella delle librerie. Penso per esempio alla ricerca che il prof. Cheli – con la sua èquipe a Firenze – sta svolgendo sulla democrazia partecipativa e deliberativa. Lo fa da par suo, sui temi propri del diritto costituzionale. Ma mi ha fatto l’onore di dirmi che la mia prospettiva legata ai profili comunicativi di questo tema contribuisce alla sua stessa visione di un grande bisogno culturale per parlare di un paese migliore. Un altro esempio: Enrico Giovannini, presidente dell’Istat,  sta per aprire a Roma (metà dicembre) la conferenza nazionale di statistica su presupposti che sono da un lato di indipendenza e rigore della statistica, ma dall’altro lato di sua necessaria migliore comunicabilità. Non è un caso che ho dato a questo tema il primo posto nei quaranta casi della parte del libro che chiamo “Le praterie coltivabili”.  Potrei dire lo stesso di altri amici e di altre personalità la cui riflessione mi fa piacere rendere parte del mio trattamento (dalla questione dei “beni comuni” a quella del  ruolo delle “autonomie funzionali”, dalla condivisione tra istituzioni e società del valore della storia alla ricerca di una modalità di spiegare l’Europa come un’opportunità e non solo come una camicia di forza, eccetera).

Dunque, in conclusione, non si tratta di libro rivolto solo agli studenti e supporto alla didattica, ma di un saggio utile per portare a una riflessione condivisa?
Per le cose che scrivo, direi di si. Da un lato penso che gli studenti universitari, in questi campi, non devono solo studiare il “dover essere”, ma confrontarsi con la realtà del cambiamento e quindi con le resistenze. Dall’altro lato penso che operatori (qui in molti, comunicatori, politici, giornalisti, amministratori, imprenditori, manager, funzionari) debbano trovare contributi applicabili (chi ha fato alcuni di questi mestieri ha forse qualche affidabilità per loro) anche nel profilo del loro stesso riposizionamento culturale. Non come fa quell’editoria delle soluzioni facili da applicare per “avere successo”.

Cito dal libro: “L’ipotesi è che debba essere più visibile una comunicazione funzionale al tema di fondo della identità competitiva e solidale del paese. Una comunicazione per una società che voglia riappropriarsi delle sue istituzioni, capace di dar voce non propagandisticamente a interessi generali, che veda alleate professionalità pubbliche e private sottratte alla frustrazione dell’eterna delega ad altri”. Il concetto di “società che si riappropria delle istituzioni” è un sogno o un progetto?
E’ un progetto vecchio come il mondo. Lo coltivavano gli ateniesi non senza che gli uomini di pensiero agevolassero e legittimassero questa idea. Non c’è civiltà che non ha pensato che la parola “democrazia” valga fintanto che le caste non confischino il potere. La storia è piena di queste confische con dolorosissime conseguenze. Ci siamo formati su questa lezione proprio centrale del novecento italiano. Se ci rifacciamo la domanda ora – siamo sicuri che la società sia padrona delle proprie istituzioni? – vuol dire che serpeggia un’inquietudine a cui non va data risposta rassicurante o demagogica, ma analitica e critica. Non butterei via, nel coinvolgimento in questo dibattito, una componente (donne, giovani, nuovi apporti multietnici, operatori innovativi) che è presente nelle filiere pubbliche, fedele ai valori costituzionali e spesso smarrita di fronte alla mediocrità di chi la guida. Rifiutare il loro contributo perché “burocrati” sarebbe un errore fatale per chi ha a cuore quella “riappropriazione”.


Presentazione Stefano Rolando "La Comunicazione pubblica per una grande società". Milano, 13 dicembre 2010

Maurizio Trezzi, giornalista e docente Iulm, presenterà lunedì 13 dicembre 2010 all’Università IULM, in Aula Marconi, dalle 15 alle 16.30, il nuovo libro di Stefano Rolando: "La comunicazione pubblica per una grande società" Ne discutono, con l’autore, Piero Bassetti (presidente di Globus&Locus), Vittorio Meloni  (responsabile relazioni e comunicazione Banca Intesa San Paolo), don Davide Milani (portavoce del Cardinale di Milano), Alberto Mina (Relazioni istituzionali di Expo 2015), Valeria Peverelli (laureata Iulm, già staff sindaco di Milano, professionista di RP). 

Il mio contributo al nuovo libro di Stefano Rolando

In libreria, dai primi di dicembre, La comunicazione pubblica per una grande società (edito da Etas, gruppo Rcs), di Stefano Rolando, professore di ruolo all’Università IULM di Milano contiene anche un mio contributo sulla Comunicazione Sociale (pag. 267-270) Obiettivo primario del testo è promuovere ragioni e regole per un migliore dibattito pubblico. E quindi sostenere le ragioni e le regole della democrazia partecipativa. Stefano Rolando da anni partecipa all’evoluzione della comunicazione pubblica in Italia e all’estero. Di recente è stato tra gli animatori della prima conferenza europea del settore promossa dal Comitato delle Regioni della UE presso il Parlamento Europeo. 

Primarie PD a Milano: CVD

23 novembre 2010

L’acronimo del titolo è particolarmente noto a tutti colori i quali si siano, durante il loro percorso di studi, appassionati alla matematica e ai teoremi. CVD sta per: “come volevasi dimostrare”. E’ questo il termine utilizzato al termine delle dimostrazioni - a partire dalla semplice regola dei triangoli rettangoli di Pitagora sino ad arrivare al teorema di Fermat o dei moltiplicatori di Lagrange, per concludere, con soddisfazione, il percorso logico che porta alla spiegazione dell’assunto. A una settimana dalle elezioni primarie della sinistra per definire lo sfidante di Letizia Moratti, e forse non solo, alle prossime amministrative milanesi, dopo aver scritto, letto, commentato, verificato, è possibile, questa volta con poca, pochissima, soddisfazione, apporre alla fine delle riflessioni l’acronimo CVD.
Come volevasi dimostrare, nulla è cambiato e nulla cambierà. Nemmeno di fronte a una sconfitta amara, cocente, bruciante, come quella incamerata dal Politburo del Partito Democratico cittadino, provinciale e regionale. La conclusione di “Tutti a casa” (inviato nei giorni scorsi) riportava la notizia della decisione del gruppo dirigente locale e lombardo del PD di rimettere il mandato. Rimettere il mandato non significa, come titolato e strillato da molti organi di informazione, anche nazionali, dare le dimissioni. Indica, con un’azione simile - e parimente incomprensibile -  all’astensionismo, la decisione di non assumere una posizione netta e decisa, di essere ambigui. Per un pezzetto si ammette qualche errore, qualche scivolone. Ma si decide di affidare il proprio futuro dirigenziale e di manager politici agli organi preposti del partito. Altro che dimissioni. Quelle significano: “Ho sbagliato, mi prendo le responsabilità, raccolgo la mie cose in un scatola di cartone e lascio ufficio, incarico e posizione”. Le uniche dimissioni della travagliata vicenda sono state quelle di Filippo Penati che ha deciso di abbandonare la carica di capo della segreteria politica del PD nazionale. Questa è la chiave, sapientemente forgiata, di svolta di tutta la vicenda, dipinta dalla stampa e dalle tv come un terremoto e che, invece, si concluderà – come sempre – con un fremito, un tremolio. Filippo Penati, dopo il ticket pagato obtorto collo nella corsa con sconfitta certa, alle regionali lombarde del 2010, aveva – con i posti di consigliere provinciale e regionale conquistati grazie all’insuccesso elettorale – accettato di tentare la scalata romana per entrare nella stanza dei bottoni del PD.
Decisione opportuna, per molti aspetti, perché riportava finalmente un esponente lombardo in un organo dirigenziale della sinistra che non vedeva da decenni prodotti dell’esperienza politica milanese e dell’hinterland nel suo staff. Il problema è che arrivarci da doppio perdente – prima alle provinciali contro il candidato fantasma Podestà, poi alle regionali con il negus Formigoni – non ha permesso di disporre di una dotazione di carisma, autorevolezza, spessore politico, seguito, voti e quant’altro che avrebbero consentito di essere ascoltati, graditi, apprezzati e di poter avere voce in capitolo nelle decisioni importanti. E così la spola Milano-Roma di Penati è diventata un calvario più che un’ascesa. Tanto che nell’opinione pubblica il suo livello di penetrazione è rimasto abbondantemente al di sotto di quelli del segretario Bersani, fin qui niente di strano, ma anche dei vari Veltroni, D’Alema, Bindi, Letta, Franceschini e anche dei più recenti prodotti del PD come Renzi e Serracchiani. La decisione di lasciare l’incarico romano, che rappresentava in fondo un paracadute, un contentino, dopo la sconfitta alle regionali, è stata una vera liberazione. Pensare di tornare a essere primo fra pochi, piuttosto che ultimo fra tanti ha allettato l’ex Sindaco di Sesto San Giovanni che ha colto la palla al balzo. Forte del doppio scranno al Pirellone e Palazzo Isimbardi, Penati ha deciso dunque di tornare a casa, per presidiare nuovamente con fermezza il “suo” territorio. Per essere controllore dei giovani controllati che nel frattempo, con l’escamotage del mandato rimesso e del finto sacrificio del loro mentore sull’altare di Sant’Andrea delle Fratte sono ora legittimati a rimanere al loro posto. Tanto le dimissioni le ha date qualcun altro. Pierfrancesco Majorino è stato, per acclamazione come ai tempi della peggior DC di Tambroni, Fanfani e Flaminio Piccoli, riconfermato capogruppo del PD a Palazzo Marino, con grande soddisfazione dei vertici del partito. Maurizio Martina, segretario regionale, tanto per confermare la tesi (CVD) ha dichiarato: "Le valutazioni espresse in queste ore, anche da Filippo Penati, devono spronare tutti noi a rilanciare subito l'impegno del Pd verso le elezioni comunali". Visto? Le valutazioni espresse da Penati. Ecco la dimostrazione. Si dimette da un incarico fastidioso il capo che salva in periferia i delfini e ne riprende il controllo ora anche con un credito infinito da utilizzare nei prossimo tentativi delle giovani leve di liberarsi dal giogo del Partito immobile. Ieri sera, lunedì 22, tutti confermati! E vai!
Ecco allora che tutto quello che è stato detto, scritto e strillato nelle ore immediatamente successive alle primarie torna, come le briciole raccolte dallo scopino, sotto il tappeto. Restano e passano alla storia gli errori strategici, di tempi e modi, di miopia politica di incapacità gestionale e comunicativa, di pressapochismo diffuso che questa dirigenza ha manifestato, reiterato e perpetrato. E resta la sconfitta di Stefano Boeri, probabilmente il miglior candidato in corsa, che però i fan, i supporter, gli ultras del PD non sono andati in massa- chissà perché cari dirigenti? Quali sono le vostre risposte? - a votare. E in un Partito che nella home page del suo sito presenta il segretario nazionale in maniche di camicia con a fianco la lunga lista delle promesse e delle chimere (fin quando si sta all’opposizione come succede da quasi 20 anni (20!!!) a Milano) finisce invece tutto a “tarallucci e vino”, come nella miglior tradizione di quella che una volta si chiamava Prima Repubblica. Altro che innovazione, altro che rottamazione, altro che cambiamento. Come volevasi dimostrare….
  

E adesso “Tutti a Casa”

15 novembre 2010

Nemmeno la regia di un genio del neorealismo italiano come Luigi Comencini avrebbe potuto realizzare una sceneggiatura migliore e dirigere un cult movie come quello delle primarie milanesi di domenica 14 novembre. E quel “Tutti a Casa”, capolavoro della cinematografia del maestro nato a Salò, potrebbe non essere oggi solo la storia di una disfatta ma diventare l’epitaffio di un partito, quello Democratico, uscito devastato dalla consultazione popolare delle primarie. Giuliano Pisapia è il candidato della sinistra nella corsa a Palazzo Marino. Insieme a Stefano Boeri, e forse molto più di lui, i veri sconfitti di queste primarie dimezzate – come detto già qualche settimana fa per la grande assenza al voto della Citta Metropolitiana – sono loro: i dirigenti e i burattinai del PD. Un partito che ha sbagliato tutto, o quasi: i tempi, i modi, le strategie, la comunicazione e, forse, anche il candidato. E ora chissà se dopo l’ennesimo fallimento per alcuni (il segretario regionale Maurizio Martina, per esempio viaggia con una media punti da retrocessione, peggio di lui hanno fatto solo Orrico, Roy Hodgson e forse Oronzo Canà) e il primo per altri (Roberto Cornelli e suoi rampolli) qualcosa davvero cambierà in un partito dove, e questa ne è la prova provata, non basta cambiare nomi e facce guardando alla carta di identità, come chiede il boyscout viola Renzi e l’etereo Civati, ma occorre modificare mentalità, progetti e, soprattutto, strategie.
Già perché in questa corsa delle primarie di bucce di banana disseminate sul percorso ce ne sono state tante. E con una precisione quasi scientifica i dirigenti cittadini, provinciali e regionali del Partito Democratico le hanno prese quasi tutte.
Mettiamole in fila
1.   I tempi. Le elezioni per il Sindaco di Milano, si sa, si svolgono ogni cinque anni. Quindi la scadenza elettorale del 2011 era nota da tanto, tantissimo tempo. Ma con la solita sufficienza e sicurezza o forse per meglio dirla tutta presunzione e spocchia il PD - e chi lo ha governato e controllato in città e in regione in questi anni - hanno capito solo dopo la presentazione di Pisapia che era il tempo per cercare un candidato da contrapporre a Letizia Moratti. Ma un futuro Sindaco non si compra al Mercato Comunale di Piazza Wagner. Si forma, nel tempo, con le giuste scelte e le mosse opportune. Ma questo il PD non riesce proprio a programmarlo. Prendete Majorino: uno come lui, capogruppo della minoranza in Consiglio Comunale, dovrebbe in cinque anni studiare da candidato e presentarsi alle primarie. Altrimenti cosa ci sta a fare su quella poltrona? Qual è il suo percorso politico? Stesso discorso per l’algido Martina, destinato a percorrere le orme dalla carriera interna infinita con pensionamento garantito a 32 anni. E invece niente. Zero. Il candidato va trovato fuori, nella “società civile”, recitavano da anni Penati e i suoi. E chi ci ha parlato negli ultimi anni con la società civile? Chi ne ha raccolto le istanze, le richieste? Chi si è fatto promotore delle sue sollecitazioni? Troppo facile pensare di farlo sei mesi prima delle elezioni. Il tempo è scaduto. Così, completamente spiazzati e sorpresi dalla candidatura di Pisapia che invece sapientemente ha scelto modi, termini, luoghi e tempi per la propria apparizione, i vertici del PD cittadino si sono trovati spiazzati come un portiere di fronte al “cucchiaio” di Totti dal dischetto. E sono corsi ai ripari, a modo loro. Hanno deciso in fretta e furia, in un’improvvisata riunione carbonara in una saletta di Linate, di candidare alle primarie e di appoggiare, con il benestare di Bersani e D’Alema, Stefano Boeri. Persona priva di esperienza politica, con il peccato originale di aver collaborato con l’odiata Letizia (conta poco è certo ma vallo a fare capire a chi ragiona solo con gli slogan e legge, magari distrattamente i titoli della stampa locale) ma con anche qualche freccia all’arco per poter essere vincente. Boeri pareva abbozzato con il carboncino, come in un disegno preparatorio di un quadro su tela, con i tratti giusti per essere un buon concorrente nella corsa a Palazzo Marino, forse il migliore. Ma se non parli con le tue anime, se decidi senza consultare, se le scelte sono concordate con il centro romano e non con le tue truppe, ecco che il Generale resta solo, e con lui anche gli attendenti. Soli nella sconfitta.
2.   I modi. Ecco il secondo punto dolente. Non è possibile arrivare a presentare un candidato, sostenuto dal Partito, senza che le varie anime del PD siano, quantomeno, coinvolte nella decisione. Mancanza di sagacia e di acume politico. Dettato, forse, dalla poca esperienza di persone chiamate a fare scelte decisive per il futuro del Partito e poi lasciate troppo sole e senza sostegno da chi, alle loro spalle, doveva essere la cavalleria capace di arrivare in soccorso della fanteria gettata troppo presto nella battaglia. E invece Boeri è stato catapultato nella mischia come scelta fatta, impacchettata e infiocchettata a dovere, quando, con le spalle al muro e dopo un’estate passata a boccheggiare come un pesce rosso lasciato nella boccia del salotto mentre i padroni di casa sono partiti per il mare, i vertici del Partito hanno necessariamente dovuto proporre un candidato. I giornali erano già pieni di articoli su Pisapia e sul silenzio del PD. Nei circoli culturali si dibatteva di temi e nel dibattito pubblico il più sagace Pisapia era da mesi sulla bocca di tutti. Bisognava fare presto. E allora avanti tutta con modi, però, che non sono piaciuti all’ala cattolica del partito e nemmeno a qualche componente della direzione – sintomatico l’appoggio di Corritore a Pisapia – portando quindi a un lavoro di taglia e cuci che ha distolto per settimane chi doveva lavorare per Boeri dalla sua promozione ma, soprattutto, ha lasciato all’elettorato potenziale la solita, e ormai irrisolvibile impressione, di partito diviso, sfilacciato e incapace di gestire al suo interno le questioni politiche.
3.   Strategie. Su tutto è aleggiata la solita mancanza di strategia, la cronica incapacità di programmazione, surrogata da una corsa costante a tappare falle, con un affanno utile solo a consolidare la posizione del rivale. Di mezzo ci si è messo anche Onida, candidato fantasma del mondo ingrigito degli intellettuali, lontani anni luce dalla città reale. Uno però che si intende di norme e regolamenti e ha fatto il diavolo a quattro ogni qualvolta qualche virgola non era messa al suo posto. Anche in questo caso non si è stati preparati ad affrontare le sfide, lavorando sull’emergenze, come una sorta di “protezione civile” improvvisata che ha preso il posto della Direzione. Una Direzione spesso in affanno, quasi imbarazzata, nel suo sostegno al candidato Boeri da tenere però in maniera politicamente corretta  – anche per non esporsi troppo – come avrebbe richiesto l’essenza delle primarie. E invece ecco gli endorsment, le liste degli iscritti messe a disposizione quasi con fastidio, gli incontri pubblici organizzati con poca convinzione perché tanto il Partito aveva deciso e quindi i giochi dovevano essere fatti. Non è andata così. Nessuna strategia nemmeno in ambito comunicativo dove il PD non brilla (eufemismo) per capacità propositiva e tattica. Mancanza di cultura e di capacità. Persa, per questione di tempi e per l’incapacità di farne un laboratorio di discussione con la città (basterebbe copiare il format, non i contenuti, del Meeting di CL), la festa del Partito al Monte Stella, la comunicazione con i circoli, con i media e con quell’elettorato agnostico e lontano - che però conta per l’80% in una consultazione amministrativa - è stata criptata, analogica e non digitale, con parole e riferimenti banali. Scimmiottata dal marketing politico della Destra che invece è frutto, non casuale, di un progetto strategico durato anni e su cui il PD è andato sempre a rimorchio. L’architetto Boeri ha scelto il blu, quasi azzurro(??), per i suoi messaggi, lasciando (che pacchia!!!) il rosso al vendoliano Pisapia che utilizzando proprio lo schema messo a punto sapientemente nella lontana Puglia dal leader di Sinistra e Libertà, ha chiaramente identificato target, strumenti e modalità. Esattamente come si fa quando si deve sviluppare una strategia di comunicazione. Procedure sconosciute ai vertici del PD provinciale e cittadino. I risultati sono sotto gli occhi di tutti
4.   Impatto. L’esito delle primarie è devastante. Non perché Boeri abbia perso, lui ha davvero poche colpe, ma per come ne esce sconfitto il Partito Democratico. Inteso come suo gruppo dirigente cittadino e metropolitano, come persone nuove sorrette da ideali e tattiche vecchie, portati a ragionare non sempre con la propria testa ma con pensieri degli altrui strateghi. Perdere le primarie. Perdere clamorosamente partecipanti (altro che: “Splendida giornata di democrazia” come dichiarato nelle notte da uno spaesato Cornelli) a votare c’è andata la metà degli attesi (67mila contro gli oltre 100mila obiettivo minimo). Perdere il consenso degli iscritti e dei militanti che non avevano nemmeno l’alternativa del mare in un’uggiosa domenica di novembre e quindi hanno scelto la Santa Messa e le chiacchiere in Oratorio la mattina o i programmi nazionalpopolari del pomeriggio pur di non andare a esprimere il loro voto. Perso nella credibilità, perché dopo averci messo la faccia o vinci o sei fuori, non ci sono mezze misure

E adesso è richiesta la prova di coerenza, per mettere finalmente persone in grado di poter dare non solo una faccia nuova ma un’impostazione diversa alla guida di un Partito che deve essere plurale e non singolare, popolare e non populista, innovatore e non conservatore, coraggioso e non ingessato, rinnovato e non pensionabile, vivo e non morto.
Quindi, avanti “Tutti a casa”. 

Le primarie dimezzate - Il PD a Milano

15 ottobre 2010
Uno dei cavalli di battaglia di Filippo Penati e di tutto il Partito Democratico nella campagna elettorale per le elezioni provinciali dello scorso anno è stato l’istituzione della Città Metropolitana. L’idea di fondere, a Milano, il Comune e la Provincia, per dare vita a un unico Ente capace di governare, in un’ottica sovracomunale questa area, era stata sostenuta e promossa dal candidato e dai vertici del Partito Democratico e oggetto di una lunga polemica, a suon di comunicati stampa e repliche all’arma bianca, con l’allora il rivale-candidato Guido Podestà. Di quella proposta, così condivisa e tanto propugnata dal PD, oggi, a un mese dalle primarie che dovranno indicare il candidato alla carica di Sindaco di Milano per le prossime elezioni, sembra non ricordarsi più nessuno. Già, perché una delle deformità del regolamento delle primarie democratiche, è che a votare ci andranno solo i residenti di Milano. Peccato, un’occasione sprecata. Allargare il campo, coinvolgere quantomeno i comuni confinanti, far percepire alla stragrande maggioranza di elettori potenziali, che la politica non si fa solo con gli annunci e gli slogan ma anche con i fatti, concreti, sarebbe stato un risultato apprezzabile. Quante volte i Sindaci del centrosinistra di Sesto San Giovanni, Pioltello, Cormano, Rozzano, tanto per citarne alcuni hanno protestato contro il “Milanocentrismo” della Moratti. Si sono accaniti contro l’incapacità di promuovere, da parte della giunta della Metropoli, politiche sovracomunali, progetti che integrassero gli interessi, i bisogni, le aspettative dei cittadini milanesi con quelli dei comuni contigui. Basti pensare ai provvedimenti di limitazione del traffico, all’Ecopass, ai massicci interventi urbanistici nelle periferie che non si raccordano con PGT e Piani dei Servizi di comuni che distano solamente qualche centinaio di metri. Eppure i vertici cittadini e provinciali del PD non hanno nemmeno preso in considerazione la possibilità di dare un segnale diverso, di fare, come diceva Nanni Moretti:”qualcosa di sinistra”. Certo i cittadini dei comuni dell’hinterland non potranno votare a primavera per eleggere il nuovo Sindaco di Milano. Ma è sicuro che esprimere il loro gradimento su quale dovrà essere il candidato che dovrà affrontare Letizia Moratti, o chi per lei, valutare le sue proposte, le politiche sulla mobilità – che non riguardano ovviamente solo Milano, anzi – sull’ambiente, le decisioni sull’attuazione del nuovo Piano di Governo del Territorio che, ad esempio, potrebbe avere un impatto devastante sul Parco Sud di cui fanno parte, oltre a Milano, tanti comuni della Provincia, sulla costruzioni di nuovi termovalorizzatori, esprimere una preferenza su tutto questo con le primarie sarebbe potuto essere un grande esercizio di democrazia partecipativa.
Di tutto ciò nessuno si è nemmeno preso la briga di parlarne, dimostrando, purtroppo, come ancora una volta vi sia una lontananza fra i vertici delle organizzazioni politiche e quella cittadinanza, forse un po’ agnostica ma che è necessario riuscire a coinvolgere, che della politica non capisce più il senso, le decisioni e spesso anche le scelte.