venerdì 10 dicembre 2010

Primarie PD a Milano: CVD

23 novembre 2010

L’acronimo del titolo è particolarmente noto a tutti colori i quali si siano, durante il loro percorso di studi, appassionati alla matematica e ai teoremi. CVD sta per: “come volevasi dimostrare”. E’ questo il termine utilizzato al termine delle dimostrazioni - a partire dalla semplice regola dei triangoli rettangoli di Pitagora sino ad arrivare al teorema di Fermat o dei moltiplicatori di Lagrange, per concludere, con soddisfazione, il percorso logico che porta alla spiegazione dell’assunto. A una settimana dalle elezioni primarie della sinistra per definire lo sfidante di Letizia Moratti, e forse non solo, alle prossime amministrative milanesi, dopo aver scritto, letto, commentato, verificato, è possibile, questa volta con poca, pochissima, soddisfazione, apporre alla fine delle riflessioni l’acronimo CVD.
Come volevasi dimostrare, nulla è cambiato e nulla cambierà. Nemmeno di fronte a una sconfitta amara, cocente, bruciante, come quella incamerata dal Politburo del Partito Democratico cittadino, provinciale e regionale. La conclusione di “Tutti a casa” (inviato nei giorni scorsi) riportava la notizia della decisione del gruppo dirigente locale e lombardo del PD di rimettere il mandato. Rimettere il mandato non significa, come titolato e strillato da molti organi di informazione, anche nazionali, dare le dimissioni. Indica, con un’azione simile - e parimente incomprensibile -  all’astensionismo, la decisione di non assumere una posizione netta e decisa, di essere ambigui. Per un pezzetto si ammette qualche errore, qualche scivolone. Ma si decide di affidare il proprio futuro dirigenziale e di manager politici agli organi preposti del partito. Altro che dimissioni. Quelle significano: “Ho sbagliato, mi prendo le responsabilità, raccolgo la mie cose in un scatola di cartone e lascio ufficio, incarico e posizione”. Le uniche dimissioni della travagliata vicenda sono state quelle di Filippo Penati che ha deciso di abbandonare la carica di capo della segreteria politica del PD nazionale. Questa è la chiave, sapientemente forgiata, di svolta di tutta la vicenda, dipinta dalla stampa e dalle tv come un terremoto e che, invece, si concluderà – come sempre – con un fremito, un tremolio. Filippo Penati, dopo il ticket pagato obtorto collo nella corsa con sconfitta certa, alle regionali lombarde del 2010, aveva – con i posti di consigliere provinciale e regionale conquistati grazie all’insuccesso elettorale – accettato di tentare la scalata romana per entrare nella stanza dei bottoni del PD.
Decisione opportuna, per molti aspetti, perché riportava finalmente un esponente lombardo in un organo dirigenziale della sinistra che non vedeva da decenni prodotti dell’esperienza politica milanese e dell’hinterland nel suo staff. Il problema è che arrivarci da doppio perdente – prima alle provinciali contro il candidato fantasma Podestà, poi alle regionali con il negus Formigoni – non ha permesso di disporre di una dotazione di carisma, autorevolezza, spessore politico, seguito, voti e quant’altro che avrebbero consentito di essere ascoltati, graditi, apprezzati e di poter avere voce in capitolo nelle decisioni importanti. E così la spola Milano-Roma di Penati è diventata un calvario più che un’ascesa. Tanto che nell’opinione pubblica il suo livello di penetrazione è rimasto abbondantemente al di sotto di quelli del segretario Bersani, fin qui niente di strano, ma anche dei vari Veltroni, D’Alema, Bindi, Letta, Franceschini e anche dei più recenti prodotti del PD come Renzi e Serracchiani. La decisione di lasciare l’incarico romano, che rappresentava in fondo un paracadute, un contentino, dopo la sconfitta alle regionali, è stata una vera liberazione. Pensare di tornare a essere primo fra pochi, piuttosto che ultimo fra tanti ha allettato l’ex Sindaco di Sesto San Giovanni che ha colto la palla al balzo. Forte del doppio scranno al Pirellone e Palazzo Isimbardi, Penati ha deciso dunque di tornare a casa, per presidiare nuovamente con fermezza il “suo” territorio. Per essere controllore dei giovani controllati che nel frattempo, con l’escamotage del mandato rimesso e del finto sacrificio del loro mentore sull’altare di Sant’Andrea delle Fratte sono ora legittimati a rimanere al loro posto. Tanto le dimissioni le ha date qualcun altro. Pierfrancesco Majorino è stato, per acclamazione come ai tempi della peggior DC di Tambroni, Fanfani e Flaminio Piccoli, riconfermato capogruppo del PD a Palazzo Marino, con grande soddisfazione dei vertici del partito. Maurizio Martina, segretario regionale, tanto per confermare la tesi (CVD) ha dichiarato: "Le valutazioni espresse in queste ore, anche da Filippo Penati, devono spronare tutti noi a rilanciare subito l'impegno del Pd verso le elezioni comunali". Visto? Le valutazioni espresse da Penati. Ecco la dimostrazione. Si dimette da un incarico fastidioso il capo che salva in periferia i delfini e ne riprende il controllo ora anche con un credito infinito da utilizzare nei prossimo tentativi delle giovani leve di liberarsi dal giogo del Partito immobile. Ieri sera, lunedì 22, tutti confermati! E vai!
Ecco allora che tutto quello che è stato detto, scritto e strillato nelle ore immediatamente successive alle primarie torna, come le briciole raccolte dallo scopino, sotto il tappeto. Restano e passano alla storia gli errori strategici, di tempi e modi, di miopia politica di incapacità gestionale e comunicativa, di pressapochismo diffuso che questa dirigenza ha manifestato, reiterato e perpetrato. E resta la sconfitta di Stefano Boeri, probabilmente il miglior candidato in corsa, che però i fan, i supporter, gli ultras del PD non sono andati in massa- chissà perché cari dirigenti? Quali sono le vostre risposte? - a votare. E in un Partito che nella home page del suo sito presenta il segretario nazionale in maniche di camicia con a fianco la lunga lista delle promesse e delle chimere (fin quando si sta all’opposizione come succede da quasi 20 anni (20!!!) a Milano) finisce invece tutto a “tarallucci e vino”, come nella miglior tradizione di quella che una volta si chiamava Prima Repubblica. Altro che innovazione, altro che rottamazione, altro che cambiamento. Come volevasi dimostrare….
  

Nessun commento:

Posta un commento