venerdì 10 dicembre 2010

Maurizio Trezzi intervista Stefano Rolando

Perché un nuovo testo sulla comunicazione, dedicato a un settore assolutamente centrale e non marginale come quello della sfera pubblica, ambito dai confini ormai molto allargati e non facilmente definiti?
Ho scritto molto sulla comunicazione pubblica. E – come dico nell’introduzione – quando ho cominciato era chiaro che a questo settore disciplinare e professionale, alla cui nascita in Italia credo di avere dato un contribuito concreto, si associava un’idea prevalente, quella di poter essere una leva nuova e potente per la modernizzazione dello Stato. Anzi, diciamolo chiaramente, per la riforma dello Stato. Il laboratorio principale fu a metà degli anni ’80 non a caso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Gli anni ’90, con molte turbolenze, hanno portato a metà decennio internet; e alla fine la legge 150, che fissa obblighi, responsabilità e legittimazioni alla comunicazione delle pubbliche amministrazioni. La legge ha però anche circoscritto il perimetro della materia. Mentre – grazie a internet ma anche  alla trasformazione sociale del paese e alla trasformazione della politica e della stessa democrazia – i nostri anni ci hanno mostrato che della riforma dello Stato non si interessa praticamente più nessuno sul serio, mentre il bisogno di una comunicazione pubblica veritiera, non propagandistica, di accompagnamento a profili importanti di competitività e di solidarietà, è cresciuto nel paese. Fatto di società e di mercati, cioè di cittadini e di imprese.

Ma qualcosa di simile era già stato accennato in un libro del ‘98, dopo l’esperienza alla Presidenza del Consiglio e la, breve ma significativa, attività di management in Olivetti. Il libro si chiamava Un paese spiegabile. Cosa c’è di nuovo?
Vedevo lì il ruolo del territorio (ero stato chiamato da poco a fare il direttore generale del Consiglio Regionale della Lombardia) e vedevo la potenzialità rivoluzionaria dell’innovazione tecnologica. Temevo anche che il lungo iter parlamentare di una legge importante e molto invocata come la 150 avrebbe chiuso la partita al ruolo di “sportello” della PA, oltre a quello, funzionale fino a un certo punto alla materia, degli uffici stampa. Misi nel titolo la parola “paese” e non più la parola “Stato”. Pensando che accompagnare davvero i cittadini a capire le normative e a utilizzare servizi e strutture in modo funzionale alla crescita (anche europea) dei diritti, fosse un compito fondamentale. Con alcuni settori chiave, di cui in quegli anni mi occupai a fondo: quello della scuola, quello della salute, quello della sicurezza e quello della sostenibilità. Da quel tempo parlo delle “quattro S” , in cui la comunicazione pubblica era come è affidata all’intera filiera degli operatori che fronteggiano gli utenti, non a ufficetti relegati – pur assai utilmente – a ricevere reclami o richieste di informazioni. Dunque una cultura generale del settore pubblico e del suo modo di interagire con la società.

E 12 anni dopo come si è evoluto quel percorso, quali sono gli approdi della materia?
Ad inizio di questo decennio vi è stata una, pur discussa, revisione costituzionale. L’art. 118, ultimo comma, ha visto l’inserimento – e quindi la costituzionalizzazione – del principio della sussidiarietà. Dibattiti, attese, delusioni hanno caratterizzato questi anni. Ma soprattutto si sono formate varie scuole di pensiero riguardo al principio innovativo diventato legge primaria. Da un lato il sistema dei soggetti più operanti nell’impresa sociale hanno spinto verso una interpretazione funzionale allo snellimento del settore pubblico e al rafforzamento di soggetti privati, associativi, consortili, cooperativi capaci di svolgere meglio e più efficacemente compiti di pubblica utilità. Dietro a questo fronte ci sono varie realtà in Italia, tra cui il sistema cooperativo e una realtà forte al nord come la Compagnia delle Opere nel cui ambito vi sono state anche caratterizzazioni teorico-culturali di cui è un’espressione il prof. Giorgio Vittadini. Dall’altro lato vi sono movimenti e associazioni che hanno lavorato per rendere lo stesso cittadino protagonista del processo di sussidiarietà, elevando il punto di consapevolezza/responsabilità del tema dei diritti costituzionali e di cittadinanza (questione nazionale ed europea) a nuova condizione del farsi attivo della società civile in processi di responsabilità. Qui contributi teorici sono stati dati da altri validi colleghi come il prof. Gregorio Arena e, con riferimenti soprattutto europei, il prof. Giovanni Moro. Un terzo lato, connesso alle dinamiche del fare e ad una idea dell’economia sostenibile e della qualità della vita, come fattori fondanti una diversa rappresentazione dell’interesse pubblico, è venuta da movimenti dinamici come Legambiente e al trascinamento di personalità di proposta e di azione, come l’on. Ermete Realacci (a cui collego anche studiosi come Aldo Bonomi o Nadio Delai) che fa individuare un terzo lato del perimetro in costruzione della cultura sussidiaria: dopo imprese e cittadini, il territorio. Un quarto lato, ancora sul fronte delle imprese, viene dagli studi specifici sul non profit che si connettono a tutti i riferimenti sin qui fatti e penso ai contributi di molti tra cui quelli del  prof. Stefano Zamagni e del prof. Giorgio Fiorentini.

E in tutto ciò quale è il nuovo contributo che deve fornire la comunicazione?
Avevo bisogno di questa premessa per dare spazio al profilo che tratto in questo libro. E’ quello di pensare come generabile un altro lato di un vasto e dinamico spazio – che ha nel momento di annuncio, di rappresentazione, di racconto, un fattore fondante essenziale – che cresca piuttosto dentro le culture civili degli operatori pubblici. Penso da un lato alla componente dei funzionari che si sono formati in questi anni su concetti larghi di comunicazione pubblica anche se poi costretti a fare “mestieri” ridotti (ridotti dalla politica che preferisce la propria visibilità, ridotti dalla legge che fatica a costruire percorsi dirigenziali tanto è vero che su tre strutture di comunicazione due – risultati di ricerca – sono estranee all’area delle decisioni, ridotti da una crescita della “giornalistizzazione” del materia rispetto all’enorme incidenza potenziale dei caratteri partecipativi e relazionali.
Dunque un invito – argomentato – a chi opera nel campo a guardare con curiosità e ricerca (marketing sociale) il bisogno e le attese di utenze specifiche per “allungare” la propria cultura, i propri spazi, i propri strumenti verso forme di sussidiarietà comunicativa. Rendere partecipi soggetti e spazi che nella società civile contribuiscono a spiegare e attuare leggi (dentro una cultura della legalità che non può essere solo di polizia e magistratura ma anche di cittadini e aziende) e soprattutto che diano corpo – in tanti settori in modo essenziale – alla rappresentazione di bisogni e attese che spesso la PA, quando la politica è miope o semplicemente demagogica, non vuole intercettare. Una politica paga del patto che riesce a fare con i media per rendere visibile se stessa. Qui si tratta di rendere “visibile” ben altro. E i siti anche pubblici, gli ambiti di eventi anche pubblici, le manifestazioni culturali anche pubbliche, l’editoria sociale anche pubblica, eccetera, sono un sistema di superfici che possono allargare la capacità di intercettazione e d rappresentazione trasformando a lungo la stessa qualità della comunicazione pubblica. Non più solo imbuto per i messaggi del potere, ma spazio pubblico per la democrazia partecipativa e la crescita del dibattito pubblico.

L’espressione “Grande Società” vuole tradurre esattamente quello che in alcune democrazie anglosassoni è oggi programma di governo sotto il nome di “Big Society”?
Si e no. Riprende l’idea del principio sussidiario e punta al rafforzamento di alleanze tra soggetti pubblici e privati, tra operatori professionali pubblici e privati. Ma non ricalca strettamente i provvedimenti che poi attorno a quell’espressione si vanno attuando. Ovvero non entra nel merito. Segnala che attorno a questo tema molti “burocrati” possono rivelare il loro vero volto civile, la loro cultura sociale, la loro capacità professionale di ampliare a poco a poco ciò che gli strumenti già a disposizione mettono in mano loro (anzi quasi totalmente in mano loro). Penso per esempio all’estensione recente dei social networks e delle forme partecipative in rete che contengono più potenzialità di ciò che le leggi prefigurano e che la maggior parte dei “capi” prevede. Ma soprattutto ricapitola l’inventario teorico e metodologico di una disciplina per allungare il passo in un periodo in cui invece tutti si lamentano e piangono miseria e stagnazione.

Con un altro, più ponderoso e forse anche più “pesante” libro – S.Rolando: Economia e gestione della comunicazione delle organizzazioni complesse, CEDAM – si è tentata una parte di questa “estensione”, quella legata al rapporto tra comunicazione pubblica e comunicazione di impresa. Come si mettono in relazione queste due entità, apparentemente lontane?
In realtà si tratta di mondi molto più vicini di quanto possa apparire, come evidenziato in quel testo, forse meno divulgativo perché scritto all’interno di logiche proprie dell’analisi che appartiene al mio raggruppamento disciplinare, quello di Economia e della gestione delle imprese, di cui gli studi di marketing sono una componente e in cui vi è un posto recente per la comunicazione – con carattere di “leva organizzativa” – sia nel settore privato che pubblico. Se si vuole argomentare che la comunicazione pubblica (o meglio di pubblica utilità) parte oggi da un’idea della parola “pubblico” come non appartenente solo allo Stato, è evidente che bisogna guardare a contaminazioni, estensioni, integrazioni, dialogo. Quello tra istituzioni e imprese è il più invocato. Da quando è scoppiata la crisi economica mondiale non si parla d’altro (da Obama a Draghi, dalla Merkel a Tremonti). Occorre disegnare ambiti di sinergia evidenti, almeno negli apparati comunicativi. Qui piuttosto si tenta di andare oltre. Di pensare alla “potenzialità pubblica” (da leggersi come responsabilità) che sta nella società civile e di richiamare l’attenzione degli operatori pubblici verso questa sinergia.

In “La comunicazione pubblica per un grande società” sono commentate le opinioni di alcuni analisti - per esempio di Piero Ostellino, sul Corriere della Sera – che obiettano sul tema della Big Society come irrealizzabile a causa della mancanza, in Italia, di una società civile. E proprio così?
Insomma, se si arriva a dire questo (capisco ogni tanto la delusione per un paese che ama troppo essere comandato e per una società spesso poco reattiva verso soprusi e illegalità, anzi non poche volta collusa) veramente ci arrendiamo di fronte ad un unico soggetto sociale che si organizza indipendentemente dalle istituzioni: la malavita. Allora non parliamo più di grandiosità del volontariato, non parliamo più di formazione di una cultura critica come dovere di scuola e università, non parliamo più tout court di libertà, perché resterebbe solo la libertà di consumare e di fare vacanze. No, penso che lo “spazio” esista. Ma in modo non uniforme. Che è visibile in una Italia – anzi in una Europa – a tratti ineguali. Che è capito da alcuni spezzoni di politica (a destra, al  centro e a sinistra), ma non dalla prevalenza. Che è sostenuto da alcuni spazi mediatici, ma non quelli centrali nell’agenda setting.

Il nuovo libro ha una costruzione scientifica e giornalistica. Cioè l’architettura corrisponde allo sviluppo argomentativo di una teoria. Poi dentro c’è un’analisi e, tema per tema, una sorta di partecipazione corale di studiosi. Sia con citazioni, sia con opinioni espresse direttamente da nomi importanti: Alberto Abruzzese, Giuliano Amato, Simon Anholt, Gregorio Arena, Fabrizio Barca, Piero Bassetti, Gianni Canova, Antonio Catricalà, Marino Cavallo,  Enzo Cheli, Alberto Contri, Fiorella Di Cindio, Giuseppe De Rita, Nadio Delai, Enrico Giovannini, Carlo Jean, Roberto Louvin, Guido Martinotti,  Franco Pizzetti, Stefano Rodotà, Stefano Sepe, Claudio Strinati, Marco Vitale, Pierre Zèmor. Che significato ha questa coralità?
Significa che mi inserisco, con una proposta specifica e se vogliamo segmentale, dentro una dibattito largamente solcato e molto importante come alternativa alla qualità di una condizione politico-civile che sembra prevalere di questi tempi. Come se la rappresentazione dei media fosse oggi più che mai diversa da quella delle librerie. Penso per esempio alla ricerca che il prof. Cheli – con la sua èquipe a Firenze – sta svolgendo sulla democrazia partecipativa e deliberativa. Lo fa da par suo, sui temi propri del diritto costituzionale. Ma mi ha fatto l’onore di dirmi che la mia prospettiva legata ai profili comunicativi di questo tema contribuisce alla sua stessa visione di un grande bisogno culturale per parlare di un paese migliore. Un altro esempio: Enrico Giovannini, presidente dell’Istat,  sta per aprire a Roma (metà dicembre) la conferenza nazionale di statistica su presupposti che sono da un lato di indipendenza e rigore della statistica, ma dall’altro lato di sua necessaria migliore comunicabilità. Non è un caso che ho dato a questo tema il primo posto nei quaranta casi della parte del libro che chiamo “Le praterie coltivabili”.  Potrei dire lo stesso di altri amici e di altre personalità la cui riflessione mi fa piacere rendere parte del mio trattamento (dalla questione dei “beni comuni” a quella del  ruolo delle “autonomie funzionali”, dalla condivisione tra istituzioni e società del valore della storia alla ricerca di una modalità di spiegare l’Europa come un’opportunità e non solo come una camicia di forza, eccetera).

Dunque, in conclusione, non si tratta di libro rivolto solo agli studenti e supporto alla didattica, ma di un saggio utile per portare a una riflessione condivisa?
Per le cose che scrivo, direi di si. Da un lato penso che gli studenti universitari, in questi campi, non devono solo studiare il “dover essere”, ma confrontarsi con la realtà del cambiamento e quindi con le resistenze. Dall’altro lato penso che operatori (qui in molti, comunicatori, politici, giornalisti, amministratori, imprenditori, manager, funzionari) debbano trovare contributi applicabili (chi ha fato alcuni di questi mestieri ha forse qualche affidabilità per loro) anche nel profilo del loro stesso riposizionamento culturale. Non come fa quell’editoria delle soluzioni facili da applicare per “avere successo”.

Cito dal libro: “L’ipotesi è che debba essere più visibile una comunicazione funzionale al tema di fondo della identità competitiva e solidale del paese. Una comunicazione per una società che voglia riappropriarsi delle sue istituzioni, capace di dar voce non propagandisticamente a interessi generali, che veda alleate professionalità pubbliche e private sottratte alla frustrazione dell’eterna delega ad altri”. Il concetto di “società che si riappropria delle istituzioni” è un sogno o un progetto?
E’ un progetto vecchio come il mondo. Lo coltivavano gli ateniesi non senza che gli uomini di pensiero agevolassero e legittimassero questa idea. Non c’è civiltà che non ha pensato che la parola “democrazia” valga fintanto che le caste non confischino il potere. La storia è piena di queste confische con dolorosissime conseguenze. Ci siamo formati su questa lezione proprio centrale del novecento italiano. Se ci rifacciamo la domanda ora – siamo sicuri che la società sia padrona delle proprie istituzioni? – vuol dire che serpeggia un’inquietudine a cui non va data risposta rassicurante o demagogica, ma analitica e critica. Non butterei via, nel coinvolgimento in questo dibattito, una componente (donne, giovani, nuovi apporti multietnici, operatori innovativi) che è presente nelle filiere pubbliche, fedele ai valori costituzionali e spesso smarrita di fronte alla mediocrità di chi la guida. Rifiutare il loro contributo perché “burocrati” sarebbe un errore fatale per chi ha a cuore quella “riappropriazione”.


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