mercoledì 24 ottobre 2012

Il Palalido di Milano e la relatività ristretta



La fisica classica, quella prima di Einstein e di Schrödinger, postulava l’esistenza di spazio e tempo assoluti. Il loro valore era indipendente dal sistema di riferimento utilizzato e la loro misurazione uguale in qualunque sistema. Con la teoria della relatività ristretta Albert Einstein scardinò questi principi per fare del tempo una variabile, appunto, relativa. Un principio perfettamente applicabile, senza dove fare ricorso a complesse formule matematiche, all’andamento di certe opere pubbliche. Il Palalido di Milano ne è un esempio perfetto. Qui il tempo, dopo gli annunci e i proclami sembra essersi fermato.
La vicenda non si perde nella notte dei tempi ma occorre resettare gli orologi a due anni fa. Era il 5 ottobre 2010 quando, in pompa magna, il Sindaco Letizia Moratti e l’assessore allo Sport Alan Rizzi, presentavano a Palazzo Marino il progetto di ristrutturazione straordinaria dell’hangar di piazza Stuparich. Costo 7 milioni di euro, totalmente provenienti dalle casse comunali, 5.000 posti e rotti la capienza finale. “Sarà la casa dello sport, degli eventi e della musica”, annunciava l’abbronzato assessore. Inizio lavori novembre 2010, conclusione prevista dopo 200 giorni, poco meno di sette mesi. I cronisti più previdenti, avvezzi ai proclami in odore elettorale, scommettevano su una durata di almeno un anno. Passarono sei mesi e non successe niente.
Ad aprile 2011, in piena campagna elettorale, l’Assessore Rizzi e l’allora Presidente di Milano Sport Mirko Paletti, arrivarono all’alba davanti al Palalido per riannunciare, davanti alle telecamere di Rai3 Lombardia, l’inizio dei lavori. Difficile a quel punto rispettare i tempi previsti (i 200 giorni) ma tant’è. Cambia la Giunta e i lavori non iniziano. Poi finalmente ecco le ruspe: parte la demolizione. E poi tutti si ferma, di nuovo. Oggi del futuro PalaAJ (Giorgio Armani patron dell’Olimpia sarà lo sponsor del Palazzetto) a 700 giorni dalla conferenza stampa del 2010, resta solo un cumulo di macerie e che ricorda, a chi non è più giovanissimo, le rovine e i detriti dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che proprio dalle parti del Palalido servirono per erigere il Monte Stella di Milano. Tempi per la conclusione dell’opera. Nessuno li sa.
Caso isolato? Nemmeno per sogno. Oggi a Milano l’unico Palazzetto dello Sport a disposizione delle società sportive è quello edificato, a cura della Federazione Italiana Pallavolo, nel Centro Federale Pavesi dalle parti di via Gallarate. Niente Palalido, niente PalaSharp (più famoso come PalaTrussardi), sulla cui ristrutturazione tutto tace. Niente Vigorelli, altro reperto preistorico che sarebbe dovuto diventare, nei piani dei vari assessori succedutisi a Palazzo Marino negli ultimi venti anni, la nuova O2 Arena di Milano. E qualcuno a Londra, a vedere com’è fatta quella vera, c’è anche andato.
Il Palalido è però lo specchio di un pezzo di Italia che non funziona, quello delle opere pubbliche: costose, in ritardo e spesso nate vecchie. Sono 7 su 10 le opere pubbliche in ritardo lavori, grandi o piccoli, che non riescono a rispettare le promesse, o meglio i vincoli previsti nel contratto d’appalto. Il dato è dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, elaborato sulla base delle informazioni che gli stessi enti appaltanti trasmettono all’Osservatorio dei contratti pubblici considerato sulle opere aggiudicate e concluse, o meno, fra 2008 e 2011. Per primi, a creare aspettative poi disattese, sono i politici, abilissimi ad annunciare miracoli senza avere cognizione dei tempi. Poi ci si mette la burocrazia che costringe a passaggi infiniti prima di poter avviare i lavori. E per finire, le imprese edili che molto spesso, adducendo cause di forza maggiore, prolungano i lavori per accedere a revisioni di prezzo che fanno lievitare i costi. Anche questa è una piaga tutta italiana. Secondo la Corte dei Conti sui costi immediati o diretti della spesa dell’intervento pubblico per le grandi opere c’è una lievitazione straordinaria calcolata intorno al 40 per cento. Insomma, tempi che si allungano a dismisura, costi che certamente saranno superiori e servizi alla città e alla collettività che ritardano, accumulando così disagio a disagio. E per lo sport milanese, come detto, il problema è ancora maggiore.
La soluzione? Forse sta nel riproporre l’idea, più volte suggerita in passato ma sempre accantonata, degli impianti di quartiere. Strutture semplici, veloci da realizzare con una capienza fra i 600 e gli 800 posti, che possano essere la vera risposta alle esigenze della società sportive e del territorio. Spazi perfetti per fare allenare e giocare i giovani e per far uscire le società dal rapporto, ambiguo e spesso conflittuale, con gli Istituti Scolastici con cui la convivenza, nelle palestre, è sempre più difficile. Certo servono investimenti, non molti in realtà. Con un Palalido se ne potrebbero realizzare almeno una decina. E serve anche una visione di lungo periodo, un guardare oltre al proprio naso, che notoriamente, purtroppo non è una caratteristica comune a molti degli amministratori e politici italiani.

Maurizio Trezzi

martedì 10 aprile 2012

Colloquio con Stefano Rolando su: "La buonapolitica: indagine nei cantieri del governo Monti a Roma e della giunta Pisapia a Milano"

di Maurizio Trezzi
E' in uscita a fine aprile. con la casa editrice Rubbettino, un nuovo libro di Stefano Rolando, una sorta di breviario laico
che si propone di accompagnarci nel dopo crisi.
Prefazioni del ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca e del sindaco di Milano Giuliano Pisapia.





Stefano Rolando, per una lunga parte della vita, è stato manager, soprattutto nel settore pubblico, ha fatto parte della nouvelle vague socialista (quella degli anni ’80), ha attraversato con successo il sistema delle comunicazioni (pubblicità, televisione, cinema, editoria, persino telecomunicazioni) e  ha letteralmente inventato un’area professionale, istituzionale e disciplinare che in Italia era inesistente, o meglio era congelata dalle rovine dell’Italia fascista: la comunicazione pubblica. Naturalmente adattandola alla democrazia, alla competitività del paese, alla complessità del territorio. Poi ha scelto – caso raro – di dedicarsi all’università. Non marginalmente, come fanno molti a contratto. Ma ottenendo - a economia a Ca’ Foscari - un’entrata formale di  ruolo per concorso concorrendo per un decennio al consolidamento di un’università specializzata in comunicazione, lo IULM di Milano. Facendo lì, come si dice, scuola. E lavorando anche in contesti internazionali.
Terzo periodo, terza fase della vita quella di una scrittura più libera, meno legata al suo specifico professionale. Riguardante l’Italia, la nostra memoria, il passato prossimo, i nodi dell’identità nazionale. Ne sono venuti fuori antologie di testi civili, lunghi colloqui con personalità singolari e legate a modelli di libertà (da Marco Pannella a Giuliano Pisapia), analisi della crisi e della perdita di immagine dell’Italia nel mondo. E molte altre cose ancora.
Ora, per la prima volta, dopo il contributo dato nel 2011 al successo della campagna del sindaco di Milano, un vero e proprio libro di politica. Anzi una sorta di breviario laico, un accompagnamento ai cittadini che vogliono il cambiamento ma sono smarriti dalla perdita di ruolo dei partiti, un incoraggiamento alla società civile a rafforzare il suo ruolo nel far politica stimolando anche i partiti a cambiare. Soprattutto un libro che immagina non solo il “cantiere” romano del governo Monti, ma anche quello milanese della giunta Pisapia come termini di paragone, come modelli di un laboratorio di qualcosa che, alla fine, da il titolo al libro: la buonapolitica. Scritta così, tutt’una, immaginata come il risultato di un processo di cantieri all’opera accompagnati da un’opinione pubblica uscita dalla narcosi, dall’indifferenza, dalla delega. E poco a poco pronta a difendere di più ciò che per tutti si chiama ancora “democrazia”. Il saggio sarà in libreriaa fine  aprile, dopo Pasqua. Mentre giorno per giorno la realtà si complica e si chiarisce, offre nuovi argomenti. Ne parlo con l’autore, che si appresta a svolgere seminari a Milano, a Roma, al sud, su questa materia e a dedicarsi a un percorso divulgativo e formativo sui temi che il libro solleva.



Buonapolitica non è un’espressione un po’ retorica? Non è un titolo troppo generico rispetto alla crisi italiana ed europea?
Beh, forse si. Ma trattandosi di un libro dobbiamo lanciare lo sguardo un po’ in avanti. Non insistere né sull’emergenza del governo nazionale, né sulle congiunture delle giunte locali. Guardare al fatto se in queste diverse realtà – tra valori e comportamenti, pur diversi tra loro – gli italiani riconoscono esperienze di dedizione e non di affarismo, di competenza e non di pressapochismo, di ascolto della società e non di propaganda. Se per caso fosse così, per esempio a Roma e a Milano,  vuol dire che si sta creando un cuneo comunicativo tra la sfiducia e la costruzione della prospettiva. Chiamare ciò “buonapolitica” non mi parrebbe azzardato.
Che senso ha mettere sullo stesso piano il governo Monti e la giunta Pisapia. Partite molto diverse, no?
Non metto sullo stesso piano i profili amministrativi e istituzionali. Metto in connessione e in coerenza due realtà che hanno bisogno l’una dell’altra. L’Italia e il sistema Milano. Un’Italia che deve riconquistare reputazione e credibilità in Italia e nel mondo. E una città – tra le otto più significative città global al mondo – che aiuta molto e può fare ancora di più per quell’obiettivo nazionale. E, aggiungo, una città che guida l’economia immateriale e creativa nazionale, che ha una rete universitaria che può fare un altro salto di qualità, in cui operano (e non se ne sono andate) quattromila multinazionali non solo per vendere ma anche per produrre e fare ricerca. Una città che sta preparando (con tutte le fatiche che sappiamo) un Expo che significa molto per la filiera agro-alimentare italiana, sud compreso. In più una città che ha un governo scelto quasi da sei cittadini su dieci in aperta e chiara discontinuità con esperienze che sembravano incrollabili.
Dunque una storia che parte dalle elezioni amministrative, dall’onda arancione…
Per forza, perché è stata quell’onda che ha dimezzato le preferenze di Berlusconi generando la slavina nazionale, la crisi del quadro di governo, l’operazione salvagente di Napolitano e il disegno del governo di emergenza. Ora la correlazione tra questi due laboratori, che i media tendono a non fare, va affrontata anche con attenzione ai processi comunicativi e simbolici. Al tema della ricomposizione della politica. Soprattutto a un aspetto importante che lega i due cantieri: la società civile conta molto nell’assunzione di responsabilità. Nell’uno e nell’altro caso. Bisogna capire come ciò evolverà rispetto all’altra evoluzione, al “terzo cantiere”, quello dei partiti.
Perché si ipotizza che i partiti politici saranno capaci di autoriforma e di cambiamento? Tutto sembra dire il contrario finora…
Io vedo naturalmente tutti i limiti degli attuali partiti. Ma cerco anche di capirne le necessità in un paese come il nostro che vuole la libertà ma è leggero nel pretendere vincoli democratici. Dunque che potrebbe cedere nuovamente delega, potrebbe accettare consorterie, lobbismi, apparati (anche statali) concepiti come protesi. No, la mediazione tra società e politica deve essere fatta. Il problema è che la società deve concepire le istituzioni come cosa propria e non consentire che esse vengano occupate dai partiti. La lotta è solo cominciata…
E come evolverà in questo anno decisivo?
Potrei rispondere con una battuta. Stiamo a vedere come sarà regolata la questione dell’emergenza Rai. Potrebbe prevalere una soluzione di mediazione tra il quadro di democrazia rappresentativa che consente la vigilanza parlamentare e il quadro economico-sociale secondo cui la Rai è pagata dai cittadini con il canone e dalle imprese con la pubblicità. Il modello deve avere una vigilanza politica ma deve anche avere un’autonomia funzionale e manageriale molto forte e capace di rilanciare più la produzione che la sua burocrazia. Se così fosse sarebbe una metafora dell’evoluzione dello stesso sistema politico.
Ma oltre alla Rai ci sono tanti fronti in cui si aspetta di capire se il paese si consegnerà ancora a lungo ai “tecnici” o rimetterà in pista i politici. Quali i più significativi?
Tutti i dossier che stanno sul tavolo del governo sono “esplosivi”. Pensioni, mercato del lavoro, rilancio degli investimenti, liberalizzazioni, giovani, fisco, malavita, eccetera. Ora metterei in testa la coesione nazionale e la forza di ritrovare un ruolo trainante per stare, da europei, in Europa portando avanti l’Europa come soluzione. Monti è la personalità più adatta per questo compito, dentro il quale prendono forma molte altre soluzioni. Ma se ho parlato di “coesione” è perché penso che l’Italia vada guardata in tutta la sua articolazione e complessità. Ed è per questo che i modelli di governo del territorio, soprattutto quelli che hanno visto e vedono consenso e partecipazione, devono fare testo in questa fase di cambiamento. E, per le ragioni dette prima, Milano fa più “testo”: è cioè parte delle soluzioni.
Non sembra però questa la partita che vuole giocare Pisapia. La sua attenzione guarda ai modi di una città che ora è in deficit e deve mantenere la qualità dei servizi facendo anche molti adattamenti.
Sì è giusto che il governo delle città trovi nelle città i risultati. Ma io credo che il modello francese dei “sindaci-deputati”, cioè dei sindaci che contano nella politica nazionale sia interessante. Perché soprattutto nel caso italiano aiuta il pari ordinamento e cerca una modo di spalmare istituzionalmente il consenso che è in fase criticissima. E come si vede in questo momento di crisi dei partiti parlano Renzi o Tosi (sindaci a Firenze e Verona), parlano Vendola o Errani (presidenti di regioni in Puglia e in Emilia), parlano Zingaretti o Dellai (presidenti di provincia a Roma e a Trento). Voglio dire che la rigenerazione della politica nasce da tre patti: quello tra partiti politici e rappresentanza sociale; quello tra autonomie territoriali e amministrazione dello Stato; quello tra contesto nazionale e nuova statualità europea.
La crisi – per ora non conclamata – in regione Lombardia apre nuovi scenari?
Milano-Lombardia sono un sistema economico e sociale. Un quarto del PIL, un terzo dell’internazionalizzazione del paese. La coesione politica tra città e regione ha molto senso. E’ evidente che in regione sono saltati i sistemi di alleanza. Una variante adatta alle caratteristiche complesse del vasto territorio del perimetro politico che regge Milano, magari con un leader più di centro che di sinistra, con robuste garanzie sui caratteri anche etici della “buonapolitica”,  sarebbe una via di uscita per tutti. Compresa la necessaria fase di rigenerazione del centro-destra a cui un po’ di opposizione restituirebbe voglia di progetto e di nuova classe dirigente.
Veniamo alla “buona politica”. Come consigli il cittadino-lettore circa il suo diritto di capire se è in buone  mani o se è truffato da illusionisti?
Accompagno il lettore in una ampia rivisitazione dell’ultimo anno della nostra vita comune, per ristabilire una percezione comune dei problemi. Costruisco percorsi di distinzione, di emersione di buone e cattive pratiche. Lascio che molte opinioni siano espresse da studiosi, esperti, analisti (pochissimi politici). Poi alla fine propongo alcune cose che dovrebbero succedere se volessimo rendere forti la pre-condizioni della nostra democrazia. Chi, a mio avviso, le farà accadere, chi da oggi le costruisce, che le rende possibili è l’alfiere della nuova buona politica.
Il nuovo libro indica dunque in Monti (espressione di una area politica centrista) e in Pisapia (espressione della sinistra) due di questi alfieri. Ma ci sono solo loro? E per la destra?
Innanzi tutto ce ne è un altro di alfiere che infatti sta in copertina nel libro – nel palco della Scala – insieme a Pisapia e Monti. Ed è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quanto alla destra è chiaro che essa sconta la crisi involutiva degli ultimi tempi del governo Berlusconi e quindi i rivolgimenti di alleanza e di leadership che stiamo percependo ma che sono solo all’inizio. E’ un cantiere, questo, molto interessante. Perché in ogni caso – non sapendo ora chi vincerà e chi perderà le elezioni – la democrazia in Italia si rafforzerà solo quando sarà più chiaro che chi perde e chi vince assumono un potere equivalente. Uno governa e l’altro controlla. I cittadini devono fidarsi di entrambi.
L' ultimo capitolo, quello della Lega che ha perso l'innocenza, è rientrare nell'analisi? E,comunque, quanto cambia l' analisi complessiva ?
E' entrato di striscio, in correzione delle ultime bozze. Ma già vi erano cenni al dibattito sull'involuzione dell'antipolitica, che e' il contesto di un vero  e proprio declino della seconda Repubblica. La riflessione riguarda la  doppiezza storica della nostra società, tra vizi e virtù che avvolgono la politica e le stesse istituzioni. Il cambio di passo a cui questa transizione conduce contiene il rischio di farci perdere contatto con le forme che conosciamo della democrazia, ma anche l'opportunità di rigenerarle. Tra massimalismi e populismi che hanno marginalizzato il riformismo democratico nel novecento fino ad oggi, forse si schiudono le porte per una nuova coalizione di chi ci provi  a cambiare il paese rispettando la legalità. Ecco perché trovo sensato avvicinare l' esperienza dei due diversi cantieri (Milano e Italia) perché l'ispirazione di quel riformismo non e' univoca, ma e ' venuto il momento di unire le forze rispetto al peggio che questo nostro paese ha saputo produrre.
In conclusione, cosa muore (o cosa morirebbe) con il ritorno della buonapolitica?
Giusto usare il condizionale. Perché la posta in gioco è enorme. Vorrebbe dire che gli interessi generali (in qualunque ente o istituzione siano trattati) non sarebbero più regolati da metodi padronali. Vorrebbe  dire chela classe dirigente risponderebbe responsabilmente del proprio operato non al riparo dei padrini. Vorrebbe dire che la società ha trovato forme per esprimere il proprio possesso delle istituzioni.




lunedì 2 aprile 2012

Un’occasione sprecata



Oggi si celebra nel mondo la giornata sull’autismo. Una sindrome, non una malattia, delicata, complessa, brutale a volte, insomma vera. L’argomento è trattato anche sulla pagine odierne del Corriere della Sera con un articolo a firma Amendola e Conti. Non entro del merito della vicenda narrata. La storia è come tante, come tutte direi. E vale anche la pena di essere raccontata. Ancora un volta però i toni e in particolar modo il risultato non sono in linea con le attese, in termini di canoni e metodi innovativi di comunicazione, sul tema della disabilità. La vita spezzata, dei genitori però non del figlio, la loro separazione, le “bella” madre che lotta e si sacrifica e, dulcis in fundo il figlio di seconde nozze dell’ex marito a interpretare il ruolo di Angelo Salvatore. Retorica, pietismo, redenzione e lieto fine. Tutte modalità narrative che continuano ad essere ripercorse dalla pubblicistica italiana, con risolutezza e ostinazione, senza comprendere come questo modello pietistico-curativo non trovi uguali altrove e non serva a rendere informazione corretta e completa su una situazione (questa è la disabilità) che coinvolge nel caso dell’autismo oltre 65 milioni di persone al mondo.
La costruzione della percezione a livello di opinione diffusa sull’autismo è stata costruita, negli ultimi anni, da pellicole cinematografiche che ne hanno trasdotto e resa esplicita la complessità. “Rain Man”, “Io mi chiamo Sam” con le interpretazioni di Dustin Hofmann e Sean Penn, hanno fatto conoscere al mondo intero qualcosa di più su questa sindrome, che può essere devastante, che si muove sotterranea come un cobra prima di colpire, con la quale si convive e attorno alla quale si possono raccontare tante storie. Che andrebbero presentate con maggior senso della realtà, con più dati e più verità oggettive, senza stigmatizzare e senza esaltare, con senso di informazione - quella vera - come se si stesse raccontando una fatto di cronaca. Le persone disabili e Mimmo, il protagonista autistico dell’articolo del Corriere della Sera, ne sarebbero stati molto più felici.

Maurizio Trezzi
Coordinatore Osservatorio Nazionale Comunicazione e Disabilità
Fondazione Universitaria Iulm Milano



sabato 25 febbraio 2012

Il 27 febbraio seminario al MASPI IULM su emergenza Rai



Si riscalda il clima sulla Rai. Il via alla corsa è venuto come è noto dal premier Monti. E la Rai, metafora del rapporto tra partiti e società in Italia, sta aprendo una discussione destinata forse a sovrastare per contenuti e conseguenze quella sull’articolo 18. Ovvero a definirsi proprio a seguito del carattere politico che prenderà il dibattito sulla riforma del lavoro. Il programma di controcanto che Michele Santoro ha intitolato, appunto, Servizio Pubblico è andato in onda il 23 febbraio proprio sul “servizio pubblico” radiotelevisivo, sollecitando chiarimenti dall’interno del sistema professionale (autonomie, palinsesti, produzione, costi, eccetera) che normalmente sono marignali nel modo con cui i partiti politici trattano la questione: nomine, equilibri, rappresentanza.
Sempre il 23 febbraio un articolo di Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera ha posto la questione di fondo: non basterà cambiare il nome al direttore generale chiamandolo amministratore delegato, il nodo è fronteggiare uno scenario economico e organizzativo difficile aumentando la produzione e diminuendo la burocrazia. Il nodo, i nsomma, è quello della politica industriale della Rai.
Lunedì 27 febbraio è una giornata che prosegue a offrire rappresentazioni che riguardano i due teatri della discussione. A Roma il PD convoca una conferenza centrata sul tema dell’innovazione. I giornalisti erano attratti dalla presenza del segretario del PD e dal direttore generale della Rai, immaginando il rialzo di temperatura in una vicenda finora tenuta in circospezione. Alla fine niente Bersani, niente Lei. E l’innovazione tecnologica scende di appealing.
Interesse invece per un laboratorio accademico - professionale. Nel polo opposto alla politica romana, quello della Milano che respira l’austerità piuttosto indipendente del suo nuovo sindaco e in cui la Rai non è mai stata azienda ben sintonizzata. Si tratta del laboratorio di Politiche pubbliche per le comunicazioni, corso condotto (alla facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università IULM) per ruolo da Stefano Rolando che è un accademico un po' particolare per aver fatto una lunga carriera nelle comunicazioni. Proprio alla Rai, dove si è formato come dirigente accanto a due presidenti come Paolo Grassi e Sergio Zavoli. Poi direttore generale dell’Istituto Luce, negli anni in cui andava ricostruita l’azienda. E poi per dieci anni direttore generale dell’informazione e l’editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (tuttora è membro del Consiglio superiore delle comunicazioni, organo ministeriale). Con lui un dirigente storico della Rai, Luigi Mattucci, ingegnere,  tra i protagonisti della riforma del ’75, tra i costruttori  di Raidue, per trent’anni nel management della azienda fino ad essere vicedirettore generale Rai e poi presidente di Raisat.
Il laboratorio e' avviato con gli studenti in pre-laurea di Politiche pubbliche per le comunicazioni (in un corso in cui hanno negli anni scorsi portato testimonianze i ministri pro-tempore Paolo Romani e Paolo Gentiloni e un costituzionalista del livello di Enzo Cheli) e quelli in specializzazione del Master in Comunicazione pubblica. 
Il tema è  quello della simulazione di ruolo del direttore generale della Rai rispetto a  ciò che oggi – per incarico e direttiva dell’azionista, cioè il governo – dovrebbe fare il management per rimettere in carreggiata l’azienda e renderla così pienamente ricettiva di una riforma che, in quanto tale, spetta al Parlamento e probabilmente ad un Parlamento in una rigenerata pienezza rappresentativa.
Dunque simulazione manageriale rispetto alla gestione economica e degli introiti, rispetto al rovesciamento del rapporto tra produzione interna e appalti, rispetto alle linee editoriali di TG e Reti, rispetto all’uso delle infrastrutture, rispetto alla gestione delle risorse professionali, rispetto al rapporto con l’integrazione tecnologica.
Un laboratorio che ha consentito di scrivere un articolato  documento di riferimento.  Poi la giornata di discussione e infine la prossima stesura di una memoria di caso.
Per vedere cosa dice il documento, questo il link


domenica 5 febbraio 2012

Basta Provinicie

Pubblico sul mio blog la risposta ad un articolo apparso sull'ultimo numero di Arcipelago Milano in tema di abolizione, o ristrutturazione, delle Provincie.


L'abolizione delle Provincie, passata ormai in giudicato nella percezione dell'opinione pubblica che le ritiene pezzi da museo, o un profondo ripensamento delle loro funzioni, è il primo passo da affrontare, con la maggior celerità possibile, per un efficace intervento sull'organizzazione degli Enti Locali.
Fatto salvo il problema del personale e dei suoi costi a carico della collettività, che non potrebbero essere recuperati - almeno in termini di efficienza -  trasferendo i dipendenti provinciali ad altro Ente, resta aperta, prepotente e imbarazzante, la questione delle competenze.
Le Provincie esercitano il loro presidio amministrativo, gestionale e di controllo su una serie di tematiche e funzioni non esclusive ma che, al contrario, sono le briciole, i rimasugli, i resti, di quello che rimane sul tavolo della spartizione dopo il passaggio di Comuni, Regioni e Stato.
Ecco alcuni esempi. Gli edifici scolastici degli Istituti Superiori sono di pertinenza provinciale. Solo quelli però, mentre sono demandate ai Comuni le cure, le manutenzioni e la gestione degli immobili delle Scuole Primarie. Nelle Politiche Sociali la prestazione di servizi alle persone con disabilità sensoriali (i non vedenti e non udenti) sono a carico degli Assessorati Provinciali diversamente da quelle fornite ai disabili motori o intellettivi, anche in questo caso di competenza comunale. Nel settore delle politiche ambientali il controllo e la direzione dei Parchi di Interesse Sovracomunale e affidata alla Provincia, mentre il resto della gestione della aree verdi è di pertinenza della Regione. 
Insomma quello che manca realmente è un coordinamento organico che superi la duplicazione di funzioni, di uffici, di burocrazia e di decisori. E’ difficile pensare che in un territorio come l’area metropolitana di Milano le politiche per la disabilità siano di competenze della Regione per quanto concerne le prestazioni sanitarie, della Provincia per le disabilità sensoriali e del Comune per le disabilità intellettive e motorie. Non sarebbe meglio, più produttivo  più efficiente, decidere che un solo ente pubblico (Il Comune?) coordini e organizzi questi servizi. Una delle priorità nella riforma della Pubblica Amministrazione, tanto richiesta ma lontana dall’essere anche solo progettata (nemmeno il Governo Monti ne parla!) e l’abolizione della trasversalità, della duplicazione di funzioni e competenze, della riproduzione come in una fotocopia di soggetti decisori. Quanto tempo si perde, e lo sanno bene gli Amministratori locali, per dipanare il dedalo di un processo autorizzativo per colpa dei continui rimandi fra Enti, del passaggio ad uffici diversi, dell’attesa di pareri, a volte in contraddizione fra loro (ad esempio in termini di bonifiche ambientali).
Ecco perché le Provincie non sono più giustificabili o almeno non lo sono con l’attuale forma amorfa. Per tenerle in vita e per legittimare Consigli e Giunte, sono state sbriciolate le competenze, rendendo ancora più caotica la Pubblica Amministrazione e disordinato il suo rapporto con i cittadini e fra gli Enti.
L’abolizione non è l’unica soluzione. Ragionando su macro aree – le famose Città Metropolitane nel caso della grandi aree urbane ma anche sulle zone contigue di interesse (bresciano, veronese e trentino per il Lago di Garda, o le zone montane) – è possibile intervenire con l’istituzione di Enti sovracomunali ai quali vanno assegnati compiti esclusivi (in materia di promozione turistica e di branding, di gestione di servizi integrati, di prestazioni sociali esclusive) che rendano chiaro e non affastellato il quadro delle competenze pubbliche per dare un vero servizio e non perdersi nei rivoli dell’inutile burocrazia.